domenica 11 gennaio 2015

Gli dei delle civiltà classiche nella storia dell'arte: EROS / CUPIDO - AMORE

Eros per i greci, Cupido o Amore per i romani, era il dio che personificava l’amore carnale, il desiderio irrefrenabile, la passione e la voglia. Raffigurato il più delle volte come un bambino, il figlio di Venere e Vulcano era un dio molto discolo – una caratteristica spesso riscontrabile tra gli abitanti dell’Olimpo  – il cui potere era quello di far innamorare o allontanare dall’amore chiunque colpisse con arco e frecce.

Tintoretto, Venere, Vulcano e Cupido, 1560, olio su tela, Galleria Palatina Palazzo Pitti, Firenze 

Cupido e il coniglio, I sec. d.C., affresco,
 Museo Archeologico Nazionale, Napoli
Iconograficamente parlando, gli antichi greci e romani non raffigurarono sempre il dio come un fanciullino, immortalandolo in affreschi e statue anche durante la sua adolescenza, soprattutto nelle opere finalizzate a raccontare alcuni aneddoti mitologici in cui il dio si rese protagonista sul piano amoroso.
Due esempi di quanto detto sono dati da un affresco del I sec. d.C., rinvenuto in un edificio di Pompei ed attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ed una statua di epoca romana imperiale, copia di un’originale dello scultore greco Lisippo del IV sec. a.C.
L’affresco citato infatti raffigura un Cupido bambino, incuriosito da un coniglio intento a brucare l’erba, munito come da iconografia di ali piumate, semi avvolto in un velo candido e sorpreso in una posizione dinamica, quasi fosse in procinto di voler acciuffare l’animale.

Eros che incorda l’arco, I-III sec. d.C. (copia romana
di un’originale di Lisippo del IV sec. a.C.),
 marmo, Musei Capitolini, Roma
La copia romana invece ripropone un Cupido più adulto di quello raffigurato nell’affresco, adolescente, più consapevole della sua fisicità nella muscolatura perfetta e nelle proporzioni anatomiche. Il Cupido, o meglio, trattandosi di un’originale greco il dio raffigurato in questa scultura è un Eros, è intento ad incordare l’arco, secondo un aneddoto raccontato da Pausania il Periegeta nella sua opera letteraria, per cui il ragazzino ponendo forza su un ginocchio e facendo leva con le braccia, cercava di dare forma curvilinea al suo arco. Un gesto ben riuscito nella scultura marmorea, dinamico ed armonico allo stesso tempo, che fa brillare la figura del dio dell’amore in tutto il suo splendore, completamente nudo e munito di ali scolpite sin nel dettaglio, spoglio della sua faretra, abilmente riposta appesa al tronco.

A distanza di un millennio in cui l’avvento del Cristianesimo oscurò per ovvi motivi il politeismo delle civiltà classiche, gli artisti umanisti e rinascimentali riscoprirono il mondo letterario e figurativo degli dei, per cui anche Eros / Amore rientrò nelle figure mitologiche che interessarono maggiormente pittori e scultori del XV e XVI secolo.

P. della Francesca, Cupido bendato,
1452 – 1466, affresco,
Basilica di San Francesco, Arezzo
Uno fra tutti Piero della Francesca, che illustrò Cupido nell’affresco attestante le Storie della Vera Croce nella Basilica di San Francesco ad Arezzo. Il dio, “riesumato” dopo tanti secoli di assopimento, qui viene rappresentato nell’esatto momento in cui, rassegnato, ripone le frecce nella faretra perché soppiantato dalla venuta di Cristo, nuovo portatore di amore; ancora i suoi occhi sono celati da una benda, simbolo – in questo caso, ma non sarà sempre così – della cecità inconsapevole degli antichi, impossibilitati a poter vedere e sentire l’infinito amore di Dio.

Sandro Botticelli invece, qualche decennio dopo darà un significato diverso alla cecità di cupido, studiando bene il concetto di amore rapportato al dio. Nella sua Primavera infatti, lo raffigurò come un fanciullino che, svolazzando sul capo di Venere, mira una delle tre grazie con l’intento di colpirla con una delle sue frecce, sicuro di sé nonostante una benda sugli occhi gli annulli la vista.

Una visione filosofica incentrata sul famoso detto “l’amore è cieco” quindi, per cui il massimo esponente di questo non è interessato allo status sociale, alla razza, all’età o al sesso dei colpiti: la benda diviene quindi l’evidente simbolo di questa casualità, che non risparmia nessuno e a sua volta rende cieco chi ne è colpito, poiché spesso preso dall’irrefrenabile desiderio, non riesce a guardare la realtà delle cose.

S. Botticelli, Primavera, 1477 – 1482, tempera su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze

Tiziano, Allegoria della Morte, dell’Amore
 e della Fortuna, 1520, dipinto su tela,
 National Gallery of Art, Washington
D’altronde la cecità procurata dalla benda fu un concetto filosofico molto in voga durante tutto il medioevo, tant’è che oltre all’amore anche le personificazioni della Morte, la Notte, l’Infedeltà e la Fortuna furono rappresentate in questo modo e accomunate non così di rado. 

Quest’ultima cosa fu all’attenzione anche di Tiziano, che nella sua Allegoria della Fortuna, Amore e Morte, raffigurò non le personificazioni bendate, bensì però i simboli delle tre entità, creando un quadro angoscioso nelle figure chiare in contrasto con gli sfondi scuri, per cui un Amore provato, aggrappandosi alla ruota della Fortuna, assiste all’arrivo del macabro cavallo della Morte.

Un Cupido – quello di Tiziano - che guarda, che non indossa bende, quindi, così come accadrà dal XVI secolo in poi: a tal punto diventa interessante per capire il processo filosofico che colpisce la nuova figura di Cupido, far riferimento alla tavola di Cranach il Vecchio, sita alla National Gallery of Art di Washington.

L. Cranach il Vecchio, Cupido,
 1530, olio su tavola, Philadelphia
 Museum of Art, Philadelphia 
Il grassottello ed addolcito Cupido di Lucas Cranach il Vecchio infatti, è intento a togliersi la benda per “poter finalmente vedere” il vero senso dell’amore, che non è più quello sensuale e cieco, pieno di passione e spinto dal desiderio, ma quello più spirituale e platonico che coincide con il matrimonio cristiano, in netta rivalità col primo. Una lotta vinta senza dubbio dalla seconda visione, perché supportata e voluta da Dio: si veda a tal punto Amor Sacro e Amor Profano di Giovanni Baglione, che racconta la dualità in modo ancor più convincente, relegando al primo le fattezze dell’Arcangelo Gabriele ed al secondo, vinto e sottomesso, le sembianze del dio pagano.

Interessante è notare come a differenza degli altri Cupido citati, quest’ultimo di Baglione sia raffigurato come un adolescente in età puberale, soggetto ripreso nello stesso anno anche dal suo collega da lui tanto odiato Caravaggio nell’Amor Vincit Omnia.
Così come ricorda la locuzione latina per cui l’amore vince su ogni cosa, il malizioso e irriverente Amore di Caravaggio è ritratto nella maestosità e nella consapevolezza della sua vittoria su ogni forma di arte raffigurata sul pavimento – quindi vinta – mentre impugnando la sua freccia e spiegando le sue ali dal lungo piumaggio, si apre in un’espressione di giubilo ed in un’impostazione vittoriosa degli arti.

G. Baglione, Amor Sacro e Amor Profano, 1602,
 olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma
Caravaggio, Amor Vincit Omnia, 1602,
olio su tela, Staatliche Museen, Berlino

F. Hayez, Cupido, 1813 – 1818,
olio su tela, Pinacoteca di Brera, Milano
Anche il Cupido di Francisco Hayez, di due secoli più tardo, è un ragazzo cresciuto così come quello di Caravaggio. Ma a differenza del primo, più canzonatore e peperino, quest’ultimo è più composto e impostato, venendo immortalato quasi come se stesse posando per il pittore, consapevole del suo ruolo di dio dell’amore nella ferma impugnatura dell’arco.

Un ruolo che gli procurò problemi sin da piccolo, secondo quanto narra la mitologia greca: Zeus, una volta saputo dall’oracolo che Afrodite avrebbe partorito un bambino che sarebbe stato fonte di guai per tutti gli dei, impose alla dea di ucciderlo seduta stante. Ma la dea impossibilitata a fare ciò al suo figlioletto, all’insaputa di suo padre e di tutti gli dei, lo abbandonò in un bosco, dove, una volta cresciuto, iniziò a fabbricarsi il suo arco e le sue frecce, per poter finalmente adempiere al suo lavoro di dio.

Parmigianino, Eros che fabbrica
 l’arco, 1535, olio su tela,
 Kunsthistorische Museum, Vienna
Una ricostruzione riportata su tela dal Parmigianino nel dipinto del 1535, che raffigura il bellissimo ragazzetto girato di spalle, intento a fabbricarsi un arco da un ramo di legno. Oltre a Cupido, dipinto secondo un’attenzione ai particolari fisiognomici tipica del pittore parmense, ritratto con sguardo fiero e determinato tipico di chi è consapevole di quale sarà il suo compito, nella parte inferiore trovano posto anche le raffigurazioni di due fanciulli, che taluni studiosi riconducono alle personificazioni di Anteros e Liseros (la  potenza dell’amore e la forza necessaria per respingerlo, o l’Amor Profano e l’Amor Sacro), ripresi mentre il primo cerca di sopraffare la seconda.

E non è un caso che Anteros sia presente nella tela del Parmigianino, considerando che mitologicamente parlando il dio dell’amore corrisposto è fratello di Eros e sua parte vitale. Infatti il mito narra che, Afrodite preoccupata del fatto che il figlioletto non crescesse, chiese aiuto alla titanide Temi che, le consigliò di generare assieme all’amante Ares un fratellino per suo figlio. Così nacque Anteros, che permise ad Eros di poter crescere in modo sano potendo godere dell’affetto di un fratello: unica pecca, non appena Antenos si allontanava da Eros, quest’ultimo tornava bambino.

Eros accompagnato da Peito, I sec. d.C., affresco, 
Museo Archeologico Nazionale, Napoli
Già un affresco del I sec. d.C. rinvenuto in una casa pompeiana ed attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, testimonia la compresenza dei due dei, ritratti come piccoli fanciulli. Nel dipinto murale, il piccolo Eros viene accompagnato da Peito, la personificazione della persuasione, che lo lascia a sua madre Afrodite in compagnia di Anteros: con la presenza della Persuasione infatti il dio dell’amore spera di ottenere dalla madre una punizione più clemente, per ottemperare alla colpa di aver scagliato dardi d’amore alla rinfusa e a casaccio.

C. Procaccini, Eros e Anteros, inizi XVII sec.,olio su
 tela, Museu Nacional de Belas Artes, Rio de Janeiro
Un rapporto fraterno e propedeutico che però viene messo in discussione e addirittura invertito dal Rinascimento in poi, quando in Anteros si volle vedere la figura dell’Amore Sacro, più accondiscendente ai canoni neoplatonici in vigore nelle corti, in contrapposizione per l’appunto alla visione dell’Amor Profano – desiderio, carnalità, seduzione – rappresentato come anzidetto da Eros.

Una rivalità che sul piano artistico si tramuta in una lotta continua tra i due fratelli, dove ad avere la meglio sarà sempre ovviamente l’Amor Sacro: si vedano su tutti il dipinto di Camillo Procaccini sito al Museu Nacional de Belas Artes di Rio de Janeiro – inizi XVII sec. – ed il gruppo scultoreo di Antonio Raggi del 1645 ca, esposto nella Galleria Estense di Modena.

A. Raggi, Amor Sacro e Amor Profano, 
1645 ca, marmo, Galleria Estense, Modena
I due fratelli ritratti dal Procaccini sono intenti a litigare forzatamente tra loro stringendo una palma: le espressioni sono di sforzo immane – compensandosi in forza i due fratelli, nessuno dei due riesce a sopraffare l’altro – l’aria è tesa, aiutata da un panorama angosciante in cui nuvoloni preannunciano un temporale; nulla di più diverso dall’armonico e celestiale affresco raffigurante Eros e Antenos di Annibale Carracci alla Galleria Farnese, che però richiama perfettamente le pose dei due fratellini, e dal quale forse il Procaccini ha preso spunto per la sua tela.

La scultura del Raggi, di impostazione berniniana è tutta un crescendo di tensione muscolare e volumi, dato dalla rotante torsione del fanciullo in piedi e dalla sfinita forza con cui il fanciullo cascato tenta di opporre resistenza: il primo trionfante è l’Amor Sacro nelle sembianze di Antanos, il secondo vinto è l’Amor Profano nella figura di Eros.

A. Carracci, Eros e Anteros, 1597 – 1600, affresco, Galleria Farnese, Roma

Mentre quando è in compagnia di sua madre Venere, Cupido viene ritratto dagli artisti del XV – XIX sec. in più situazioni, alcune intimistiche altre giocose, altre ancora dense di simbolismi e significati più nascosti. Come nel caso della tela di Lorenzo Lotto al Metropolitan Museum, raffigurante Cupido e Venere, del 1530 ca.
Nell’opera di chiara impostazione rinascimentale – si vedano gioielli, tendaggi ed ornamenti a testimonianza di ciò – la Venere vestita solo di un velo trasparente, di una tiara tempestata di pietre preziose, di orecchini ed un bracciale, si diletta a stuzzicare con un Cupido irriverente che gioca a centrare una ghirlanda di mirto col getto della pipì.

Tutto   qui, riconduce al matrimonio ed alla fecondità: la tiara ed il velo di Venere, tipica acconciature delle nozze; la conchiglia appesa sul suo capo, che indica la femminilità; la cornucopia sull’attaccatura del drappo rosso, che simboleggia abbondanza e fecondità; l’orecchino di perla della Venere, a dimostrazione della purezza della donna; la ghirlanda di mirto, sempreverde come l’amore e il matrimonio, ed infine il getto di urina che cade sulla donna, un piccolo gioco allusivo alla fertilità augurante.

L. Lotto, Cupido e Venere, 1530 ca, olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York

L. Giordano, Venere Cupido e Marte, 1663,
olio su tela, Museo di Capodimonte, Napoli
L’idea del getto viene in seguito riproposto circa vent’anni dopo anche da Luca Giordano nel suo dipinto con Venere, Marte e Cupido, in cui i due amanti sono intenti a chiacchierare tra di loro, mentre la sontuosa, ingioiellata e sensuale Venere allatta il piccolo Cupido che scalpita e si dimena: dal seno della dea escono schizzi di latte diretti alla bocca del bambino, a simboleggiare la fertilità e la fecondità, così come lo era il getto di urina nell’opera del Lotto.  

Ancora altri temi inerenti al rapporto di Cupido con Venere sono dati dal disarmo del suo arco da parte della madre, che spesso soleva indispettirlo in questo modo. Paolo Veronese nella sua tela che raffigura appunto Cupido disarmato da Venere, raffigura proprio quest’ultimo passaggio attraverso le espressioni dei due protagonisti, dove la mamma è divertita dal fatto di aver privato dei poteri il piccolo figlioletto, ed il dio è infastidito e irritato dalla cosa, tanto da cercare di aggrapparsi a lei cercando di riprendersi la sua arma.

P. Veronese, Cupido disarmato da Venere, 1560 ca, olio su tela, Worcester Art Museum, Worcester

P. Batoni, Diana rompe l’arco di Cupido, 1761,
olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York
La stessa preoccupazione che si legge nel dipinto di Pompeo Batoni sito al Metropolitan Museum, di due secoli più tardo di quello del Veronese, in cui però a indispettire il dio dell’amore non è Venere ma Diana, la dea della caccia. L’azione in questione però è più drammatica perché la dea, seduta su una roccia, immersa in un paesaggio boschivo suo habitat naturale, è intenta a spezzare l’arco del dio – o almeno a fargli credere che farà questo. Sul volto di Cupido, per quanto la sua figura sia di profilo se non quasi voltata verso la dea, è comunque ravvisabile tutta la preoccupazione e lo sconcerto procurate dal folle gesto di Diana, che così facendo priverebbe il dio del mezzo utile a far innamorare o disinnamorare la gente.

Magari un gioco o forse una vendetta quella della Diana di Batoni, considerando quanto Cupido fosse poco gradito agli altri dei – ed in generale al popolo greco – per il suo modo giocoso, combinaguai e vendicativo di scagliare frecce tra dei e mortali o semidei.
Ne è un esempio il mito di Apollo e Dafne, che racconta la vicenda per cui Cupido, irritato e geloso delle imprese eroiche di Apollo, decise di farlo innamorare di una donna che non gli avrebbe mai corrisposto: quindi, prendendo due frecce che avrebbero procurato nelle persone colpite due sentimenti diversi, scagliò verso il Dio il dardo con la punta d’oro per farlo innamorare della ninfa Dafne, e verso la ragazza un dardo con la punta di ferro per farla fuggire dall’amore di Apollo.

La tela del 1615 di Francesco Albani sita al Louvre, racconta proprio il momento in cui il piccolo ed irresponsabile Cupido, attorniato da una nuvola fumosa che apre alla dorata atmosfera in cui lui prende posto, si diverte ad ammirare la scena in cui Apollo insegue Dafne – indicatagli dallo stesso ragazzino con l’indice; l’epilogo è presto detto: Dafne, inorridita all’idea di cadere nelle grinfie di Apollo, chiede a sua madre Creusa si salvarla, venendo da questa trasformata in una pianta di alloro.

F. Albani, Apollo e Daphne, 1615, olio su tela, Musèe du Louvre, Parigi

Ma lo stesso dio oltre a provocare gli altri dei con le sue frecce, in un’occasione ne rimase egli per primo colpito: accadde infatti una volta che, spinto da sua madre a vendicarla perché una fanciulla mortale bellissima, tale Psiche, veniva costantemente paragonata a lei, invece di scagliare la freccia d’innamoramento verso il più brutto e repellente degli uomini, la indirizzò inavvertitamente verso il suo piede, cadendo egli per primo vittima del suo potere.

Non potendo quindi annullare quanto accaduto, rapì la bella Psiche per portarla nella sua dimora; la ragazza già lo aspettava in cima ad una rupe, perché le era stato predetto da un oracolo che un uomo alato l’avrebbe rapita per prenderla in sposa, sicché all’arrivo di Cupido, per quanto fosse angosciata dal non sapere cosa le stesse accadendo, non era affatto sorpresa. Una tela di William Adolphe Bouguereau racconta proprio questo passaggio del rapimento, in cui il bellissimo ed aitante Amore si  libra nell’aria con la rassicurata Psiche, iconograficamente raffigurata con ali di una falena.
(Per altro lo stesso Bouguereau non  era nuovo a questo tema, avendo dipinto una delle tele più associate al suo nome, in cui compaiono Amore e Psiche fanciulli attorniati da nuvole).

A. W. Bouguereau, Il rapimento di Psiche, 
1895, olio su tela, collezione privata 
A. W. Bouguereau, Amore e Psiche fanciulli,
 1890, olio su tela, collezione privata

Una volta nella dimora di Amore, il dio chiese alla fanciulla di potersi accoppiare ed incontrarsi solo di notte, onde evitare sia che lei potesse scoprire la sua natura di dio e che sua madre venisse a sapere di questo amore e così accadde per molte notti: la tela di Jacques Louis David cattura un tipico momento post accoppiamento, in cui un soddisfatto e sornione Amore è intento ad alzarsi dal letto per sparire prima che l’avvenente Psiche si svegli; fuori l’arrivo dell’alba ricorda che il suo tempo è scaduto è la luce non gli sarà favorevole, per cui è tempo di andare.

J. L. David, Amore e Psiche, 1817, olio su tela, Cleveland Museum of Art, Cleveland

E quindi accadde che alla fine però, vinta dalla curiosità ed aizzata dalle sue sorelle che premevano affinché ella conoscesse l’identità di suo marito, una notte mentre Amore dormiva, si svegliò, prese una lampada ad olio, l’accese ed illuminò il suo sposo, scoprendo chi in realtà questi fosse. Ma una goccia d’olio bollente cadde sul dio, svegliandolo, che non gradì la cosa e decise di fuggire da lei.

G. M. Crespi, Psiche scopre Amore, 1709,
olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze
Diversi artisti contestualizzarono questo episodio nelle loro tele riguardanti Amore e Psiche, uno tra tutti fu Giuseppe Maria Crespi, che lavorò alla corte medicea agli inizi del XVIII sec.
Nel dipinto in cui Psiche scopre l’identità di Amore, è qualitativamente ottimo il gioco di luci ed ombre che vanno a sovrapporsi sui protagonisti e nell’ambiente circostante, per cui viene garantita l’idea di notte, il senso dello scoprimento del dio, del suo fastidio e della sorpresa della donna: d’altronde le espressioni parlano chiaro, Amore sembra sorpreso in negativo dal gesto nefasto della donna, tentando di coprire il suo volto con la mano affinché lei non possa guardarlo.

Per potersi ricongiungere quindi con il suo amato, Psiche dapprima si sbarazzò delle sorelle – i miti greci sapevano essere molto cruenti – poi chiese alla madre di lui, Venere, se ci fosse un modo per poter riavere indietro suo marito. La dea quindi mossa a compassione ma desiderosa allo stesso tempo di veder compiuta la sua vendetta, le ordinò di superare ben quattro prove impossibili, che però furono concluse grazie all’aiuto che Psiche ricevette da animali ed altri dei.

Quindi l’epilogo amoroso per eccellenza: dopo tante fatiche Psiche e Amore si ritrovano e finalmente possono coronare il loro sogno di stare insieme per sempre. Un sentimento che nessuno meglio di Antonio Canova, seppe mettere in evidenza nel suo gruppo scultoreo del 1788 di Amore e Psiche, uno dei pezzi forti del Louvre, in cui i due amanti vengono raffigurati in una posa elegante e leggiadra, in modo che le due figure formino una X incrociando le ali del dio con il suo corpo e quello della donna, nell’attesa spasmodica e desiderata che quel bacio tra le due figure così vicine tra di loro, avvenga prima o poi. 

A. Canova, Amore e Psiche, 1793, marmo, Musèe du Louvre, Parigi

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