venerdì 27 giugno 2014

Il cavallo nella storia dell'arte

Cavallo,  15.000 – 10.000 a.C., 
pittura parietale, Caverna di Lascaux
Come nelle migliori cronistorie tematiche affrontate in questo blog, anche per quanto ne concerne l’analisi della raffigurazione del cavallo nella storia dell’arte, è d’uopo soffermarsi sulla presenza già in antichità, del soggetto nelle rappresentazioni pittoriche parietali o vascolari.
Infatti, come desumile dalle pitture sulle pareti della Grotta di Lescaux, in Francia, già 15.000 – 10.000 anni fa, gli uomini preistorici erano soliti raffigurare l’animale, probabilmente ancora selvatico.

Anfora attica a figure nere,
VI sec. A.C., terracotta,
Museo del Louvre, Parigi
È con l’arte greca, che noi riscontriamo le prime immagini anatomicamente precise del cavallo. Infatti nella civiltà classica per eccellenza, - ma già prima con egiziani e fenici – il cavallo diviene il mezzo di trasporto bellico degli eserciti, per cui la sua considerazione nella vita sociale e quotidiana delle polis, acquista notevole spessore. Da una delle anfore a figure nere del periodo attico, custodite nel Louvre a Parigi, si delinea un cavallo dalle forme sinuose e schematiche, regale nel suo aspetto dal corpo robusto e le zampe longilinee. D’altronde è ben risaputa la storia leggendaria del Cavallo di Troia, l’espediente gigantesco che permise ai greci di vincere sui troiani, così come dal punto di vista poetico letterario, la presenza del Centauro nella mitologia greca, un essere per metà uomo e per metà cavallo.

Biga con due cavalli, I sec. D.C., marmo, 
Musei Vaticani, Città del Vaticano.
Coi romani, lo studio dell’anatomia, della muscolatura e della fisiognomica del cavallo si affina sino a raggiungere altissimi livelli. Ormai il cavallo viene raffigurato non solo ideologicamente quale elemento fondamentale per il vissuto dell’uomo, ma anche come metafora del suo spirito forte e irruento. I cavalli del gruppo scultoreo della Sala della biga ai Musei Vaticani, sono infatti cavalli scalpitanti e immortalati nel loro galoppo febbricitante verso la vittoria. Ovviamente i tronchi che si diramano dalla base verso i loro petti, servivano per scaricare a terra il peso del corpo che si erge sulle due zampe posteriori: un supporto fondamentale per non permettere che il gruppo scultoreo si sgretolasse in due pezzi o perdesse dell’equilibrio necessario.

Monumento equestre a Caligola, 
50 a.C., gruppo scultoreo in marmo,  
British Museum, Londra. 
Oltre che dal punto di vista bellico e quotidiano, per i romani il cavallo rappresentava anche un fedele alleato ed uno status quo: nella ritrattistica imperiale infatti non di rado gli imperatori si lasciavano immortalare in monumenti dal sapore equestre, che relegavano loro un’impostazione densa di potere e regalità. Ne sono due esempi validi i monumenti equestri salvatisi dalla Damnatio Memorie che colpi i due soggetti in questione: Caligola e Marco Aurelio.

Caligola fu l’imperatore che forse più degli altri governò l’Impero Romano nel pieno della follia. Forte delle sue scelte politiche strambe ed eclettiche, fu molto innamorato del suo cavallo Incitatus, tanto da arrivare praticamente ad idolatrarlo: nel corso del suo regno, è leggenda assodata che si coricasse nel suo letto assieme a questo; altre fonti narrano che non solo gli avesse regalato una collana così preziosa che era l’invidia di ogni nobildonna romana, ma che addirittura gli avesse fatto costruire un palazzo personale per farsi perdonare di aver scelto una donna come moglie a lui; mentre è dato certo che addirittura arrivò persino a nominare quel suo cavallo senatore dopo averlo prima nominato sacerdote e poi primo cittadino romano, oltre che averlo candidato alla carica di console. Questo forte attaccamento di desume dal gruppo scultoreo del Monumento equestre a Caligola del British Museum, nel quale (quel che si crede) Caligola, cavalca fiero il suo Incitatus, che dal suo canto, nella perfezione del suo corpo da cavallo da corsa di bighe, si erge fiero, postando una zampa in avanti.

Monumento equestre a Marco Aurelio (copia),
176 d.C., bronzo, Piazza del Campidoglio, Roma
Vale lo stesso discorso per il Monumento equestre a Marco Aurelio, in bronzo, sicuramente più stabile del primo perché non provvisto del tronco atto a stabilizzare il gruppo statuario. Anche in questo caso Marco Aurelio, nella sua barba filosofica e nella sua toga, sovrasta il cavallo agghindato di tutto punto e rifinito nella muscolatura e nelle striature della pelle delle parti basse delle zampe. Un gruppo statuario così preciso e meravigliosamente classico, che indusse Papa Paolo III, nel 1531, ad ordinare a Michelangelo che trovasse a questa una degna collocazione nella Piazza del Campidoglio a Roma, allora sede delle autorità politiche cittadine. Ovviamente Michelangelo non si limitò a trovarle una collocazione, ma, nel pieno dell’idea rinascimentale per cui al centro del mondo vi è l’uomo – in questo caso l’imperatore a cavallo – la dispose al centro della piazza ristrutturata completamente e chiusa in un trapezio con la costruzione del Palazzo Nuovo, simmetrico al frontale Palazzo dei Conservatori.

Michelangelo, Rivisitazione della Piazza del Campidoglio, 1534 – 1538, Roma.

Effettivamente la scelta di Paolo III non appariva sconclusionata, dato che la sua decisione non fu un vero e proprio revival scovato nei cassetti del passato, ma il seguito di una scia consolidata ormai da decenni. I monumenti equestri ai grandi personaggi coevi, meritevoli di imprese politiche o belliche e quindi immortalati sui loro cavalli in complessi scultorei, si ergevano già nelle piazze di importanti città – soprattutto del nord: tra tutti  si veda il Monumento equestre al Gattamelata, eseguito dal Donatello tra il 1446 ed il 1453, sita nella Piazza del Santo a Padova, e il Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni, opera di Andrea del Verrocchio del 1480 – ’88, che svetta in campo San Zanipolo a Venezia, nel pieno della fierezza austera del condottiero.

Donatello, Monumento equestre al Gattamelata, 
1446 – '53, bronzo, Piazza del Santo, Padova. 
A. del Verrocchio, Monumento equestre a Bartolomeo
 Colleoni, 1480 – '88, bronzo, Campo San Zanipolo, Venezia

G. Romano, Sala dei Cavalli, 1525 – '27,
affresco, Palazzo Te, Mantova. 
In piena età rinascimentale, lo studio degli animali si fa più intenso, preciso e mirato: gli animali non sono più una componente nei dipinti e nelle sculture, ma divengono veri e propri protagonisti, tanto che pittori del calibro di Giovanni da Udine, della bottega di Raffaello, si specializzano nel settore. Da lui prenderà probabilmente spunto anche Giulio Romano, uno dei più talentuosi e classicisti della bottega del grande maestro urbinate, nella raffigurazione dei cavalli nella Sala dei Cavalli a Palazzo Te a Mantova. Qui il pittore decorò le pareti con le raffigurazioni dei cavalli a grandezza naturale, delle scuderie gonzaghesche, di cui quattro è conosciuto persino il nome: Dario, Morel Favorito, Battaglia e Glorioso.

Leonardo, Studio di cavalli, 1504, carboncino su carta, 
Collezione reale del Castello di Windsor, Londra. 
Altro campo di studio riguardante i cavalli, fu quello delle scene di battaglia o di calca, uno studio fondamentale per gli artisti, a cui non di rado venivano commissionate opere inneggianti alla vittoria di questa o quell’altra battaglia (si veda ad esempio il trittico della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, nel quale i cavalli giocano un ruolo fondamentale nella struttura sia compositiva che emotiva dei dipinti). Nel campo, tra i più talentuosi e precisi bisogna annoverare Leonardo da Vinci, che ha lasciato diversi bozzetti dei suoi studi sui cavalli, utili soprattutto per capire come poteva apparire la sua opera monumentale riguardante la Battaglia di Anghiari, ormai perduta. Di questa abbiamo solo un bozzetto ridisegnato a metà ‘500 da un suo seguace, riproposto poi in una fedelissima copia, dal Rubens, agli inizi del XVIII secolo.

P. Uccello, Battaglia di San Romano, 
1438, misto su tavola, Louvre Parigi,
National Gallery Londra, Uffizi  Firenze
P. Rubens, Bozzetto de’ La Battaglia di Anghiari, 1603,
matita su carta, Museo del Louvre, Parigi




Caravaggio, Conversione di S. Paolo,  1601,
olio su tela,  Santa Maria del Popolo, Roma
Ed agli stessi anni appartiene la tela de’ La conversione di San Paolo, che il Caravaggio dipinse per la Cappella Cerasi nella Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma, nel 1601. E nella migliore tradizione caravaggesca, esponente massimo del Naturalismo Italiano seicentesco, il cavallo da cui cade il cavaliere redento, si mostra nella sua reale figura, con imperfezioni annesse. Infatti a differenza della resa cinquecentesca del soggetto, solitamente abbellita e privata di ogni tipo di fastidiosa imperfezione, il cavallo in questione si presenta nudo e crudo nel suo pellame pezzato bianco e marrone, illuminato da un fascio di luce divino come da fare del pittore bergamasco, e ripreso da dietro: dalle zampe posteriori alle possenti cosce, dai muscoli delle zampe anteriori allo zoccolo ferrato, l’animale è perfetto nella drammaticità dell’evento appena accaduto.

Quasi due secoli più tardi, verso la fine del XVIII secolo, Johann Heinrich Fussli, pittore romantico svizzero per eccellenza, ripropose una nuova visione legata al cavallo nella sua opera L’incubo, legata agli aspetti onirici e mistici della notte, nel pieno clima goticheggiante del Romanticismo tedesco.

J.H. Fussli, L’incubo, 1790, olio su tela,
Goethe Museum, Francoforte sul Meno
Nella fattispecie, il cavallo ritratto nel dipinto è una giumenta bianca dall’aspetto fantasmagorico, scalpitante e fremente nei suoi bulbi oculari pronunciati e nella sua folta criniera aleggiante, che, come in un teatro dell’orrore fa il suo ingresso trionfante nella scena. L’animale non fu inserito nel dipinto a tema, per caso: secondo tradizioni nordiche infatti, gli incubi erano sempre preannunciati da un nano mostruoso (che in questo caso è posato sul ventre della vergine) che cavalca una giumenta.

Circa vent’anni dopo, agli inizi dell’Ottocento, sarà il neoclassico Jacques Louis David a riconsegnare al cavallo il suo ruolo signorile di potente alleato del signore. Nel Napoleone valica il San Bernardo, il condottiero è erto nella sua possanza al pari degli altri due illustri predecessori che valicarono le alpi: Carlo Magno e Annibale. Fermo nella sua magniloquenza, nella tela Napoleone è ritratto mentre al groppo del suo fidato Marengo, si appresta all’ennesima impresa eroica. E tutto è eroico nel dipinto: lo sguardo fiero di Napoleone; la sua tenuta impeccabile con tanto di spada alla cintola e  manto rosso avvolto attorno al suo corpo; la posa impennata di Marengo, perfetto nel suo profilo scolpito, nel candore del suo manto e nell’ariosità del suo folto crine e della sua lunghissima coda.

J. L. David, Napoleone valica il San Bernardo, 1800, Museo del Castello Malmaison, Rueil Malmaison

E. Degas, La sfilata, 1866 – 1868,
olio su tela, Museo d’Orsay, Parigi.
Ma il cavallo è anche compagno di lavoro e di tempo libero. Lo raccontano bene due artisti che hanno cavalcato i due secoli Ottocento e Novecento, uno francese, l’altro italiano: Degas e Fattori.
Edgar Degas, nel pieno della seconda metà dell’Ottocento, studia a fondo i protagonisti di quello che era uno dei passatempi più amati dai parigini del suo tempo: le corse all’ippodromo. Negli anni ’60 infatti il pittore dipinge diverse tele a tema, tutte incentrate sia sulla resa anatomica del cavallo, animale da cui era molto affascinato, (tanto da studiare le rese anatomiche dei grandi maestri del passato e degli artisti che lo avevano preceduto di qualche generazione) e sul clima di competizione, svago e tensione che si respirava durante le corse. La sfilata preannuncia proprio la gara che si sta per disputare: in primo piano i fantini in groppa ai loro cavalli attendono l’inizio della competizione; sulla sinistra si dirama la folla che attende lo spettacolo. E Degas cattura il tutto da un angolo atipico, come se fosse uno dei fantini in competizione: non c’è la teatralità della scena frontale; tutto è ripreso nel silenzio e nell’inconsapevolezza dei veri protagonisti dello spettacolo che si sta per tenere: i fantini ed i cavalli.

G. Fattori, Ritorno della Cavalleria,1888,
olio su tela, Pinacoteca Provinciale,Bari
Giovanni Fattori invece racconta i cavalli nella  quotidianità della vita dell’uomo. Anche lui non rinuncia a riprese sensazionali dei cavalli da fanteria (si veda il coinvolgente Ritorno alla cavalleria, in cui i cavalli neri creano un gioco geometrico ordinato nella loro disposizione da parata), ma quel che più colpisce della sua pittura tematica è l’attenzione al cavallo quale elemento di lavoro nelle campagne. La tela de’ Il Cavallo morto è delicata nel forte pathos che trasmette: nel pieno dei campi biondi di grano, su un sentiero sdrucciolo e zigzagante, un cavallo giace morto, forse dopo una caduta dovuta alle fatiche nei campi, forse di vecchiaia. Al suo fianco il contadino inebetito e ormai desolato, resta fermo a pensare che ne sarà del futuro dei campi, come potrà continuare a faticare da solo adesso che il suo fedele amico e collega non c’è più, adesso che è venuto a mancare anche uno dei beni più preziosi che un povero contadino potesse al tempo permettersi.

G. Fattori, Il cavallo morto, 1903, olio su tavola, Collezione Taragoni, Genova

E con Fattori siamo ormai agli inizi del Novecento, secolo che rivoluziona il modo di vedere i cavalli, secondo le regole dei diversi stili pittorici e delle avanguardie più innovative.
In Italia nei primi due decenni del secolo, sicuramente risulta interessante notare lo studio sull’animale fatto da due artisti appartenenti a due correnti molto diverse tra loro: l’energico e raggiante Futurismo e la statica e mitologica Metafisica.

U. Boccioni, La città che sale, 1910, olio su tela,
Museum of Modern Art (MoMA), New York
Umberto Boccioni nelle sue tele futuriste, alimentate da svirgolettate filamentose raffigura il cavallo come elemento impetuoso di dinamismo. Si veda una delle sue prime opere futuriste, La città che sale del 1910, tela dipinta durante la contemplazione dei lavori in un cantiere di Milano. Qui, il cavallo che padroneggia al centro dell’opera è un chiaro riferimento simbolico all’evoluzione, alla produttività ed all’accelerazione di cui si faceva portavoce il Manifesto di Filippo Marinetti: nella sua furia, indomabile e ormai a briglie sciolte, il cavallo si dimena furente e nulla possono gli uomini nel tenerlo a bada; ormai la società si sta evolvendo, sta progredendo inesorabile verso il futuro ed è l’uomo che deve adattarsi a quanto gli accade sotto agli occhi e non il contrario.

Giorgio De Chirico, dal canto suo, riprende il cavallo nell’esatto contrario di Boccioni, collocandolo in distese litoranee, nella quiete di un tempo indefinito e di uno spazio sconosciuto che si perde all’alba delle civiltà classiche. Nei due esempi de’ Cavalli in riva al mare (il soggetto sarà ripreso più volte dal pittore metafisico), i due equini sono ripresi nella loro maestà mitologica, meravigliosi nelle loro criniere ondulate e eleganti nei loro fisici resi ancor più longilinei dalle pennellate vigorose chiare e scure a creare ombre e luci. I cavalli in riva al mare sembrano una coppia che è in grado di provare i sentimenti dell’uomo, persa nel ricordo dei tempi andati e desiderosa di godere del dolce momento ricreato nelle tele.

G. De Chirico, Cavalli in riva al mare, 1927,
olio su tela, Museo Carlo Bilotti, Roma
G. De Chirico, Cavalli in riva al mare, 1927, olio su tela,
Museo Carlo Bilotti, Roma




Negli stessi anni di Boccioni invece in Germania, sarà Franz Marc ad interessarsi alla figura del cavallo. Esattamente come Degas, anche Marc riprenderà il soggetto scomponendolo e ricomponendolo verso vie sperimentali che toccano le diverse correnti pittoriche europee che si affacciavano in quel tempo. Esemplari perché uguali ma allo stesso tempo molto diversi tra loro sono le due tele de’ Il cavallo blu del 1911 e La Torre di cavalli azzurri del 1913: nel primo si ravvisa un evidente sentimento naif e fauvista, nella semplicità del disegno che giustappunto trasmette un senso di armonia e dolcezza e nel contrasto dei colori vivi, che regalano vitalità al cavallo; nel secondo si nota un approccio al Cubismo di Braque e Picasso nella schematizzazione dei cavalli, che creano quasi una torre di figure geometriche nel sovrapporsi tra loro.

F. Marc, Il cavallo blu, 1911, olio su tela,
Stadtische Galerie im Lenbachhaus, Monaco
F. Marc, Torre di cavalli azzurri, 1913, 
olio su tela, Collezione privata.

P. Picasso, Ragazzo
con il cavallo, 1906,
olio su tela, MoMA,
 New York
E se Marc si avvicina al cubismo e lo sperimenta coi suoi cavalli, Picasso ne è padrone. Dai tantissimi bozzetti, disegni, sculture e dipinti lasciati in eredita dal genio di Malaga, si evince un’attenzione particolare e disparata verso la figura del cavallo, da parte dell’artista, che riprende il soggetto ancor prima di sprofondare nel cubismo, come si evince dal Ragazzo con il cavallo del 1906. Ma nell’opera di denuncia Guernica, dipinta nel 1937 a seguito del bombardamento aereo della Legione Condor sulla città spagnola, durante la guerra civile, il cavallo diviene il simbolo di un popolo intero. Infatti nel tormento e nella disperazione generale che governano la composizione, al centro di essa trova luogo un cavallo imbizzarrito e impaurito, inserito in quel dipinto denso di simbolismi, a rappresentare il popolo spagnolo ormai sfinito, turbato e alienato dalla guerra civile.

P. Picasso, Guernica, 1937, olio su tela, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid.

R. Magritte, La firma in bianco, 1965, olio su tela,
 National Gallery of Art, Washington.
Ma ben più dolce e quieto infine, è l’esperimento del surrealista René Magritte con il soggetto equino, che, nella tela La firma in bianco, tenta di raccontare con un’immagine l’idea dello sguardo furtivo sulle cose. Infatti nel dipinto è raffigurata una dama a cavallo nei boschi tra diversi tronchi d’albero: in un gioco di scomposizioni prospettiche e volumetriche, la donna e il cavallo scompaiono e riappaiono tra i tronchi, nell’interdizione di chi ammira il dipinto.

L’idea di Magritte era quella di dimostrare, attraverso il dipinto esemplare, che nella vita di tutti i giorni ci sono cose che si possono vedere in alcune occasioni ed in altre no, ma ciò non significa che nel momento in cui non le vediamo, non ci sono. Una spiegazione semplice attraverso una visione surreale, ben tenuta da un cavallo che si destreggia con le sue esili zampe tra tronchi e rami. 

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martedì 17 giugno 2014

Gli amanti degli artisti nella storia dell'arte


Vaso a figure nere con Achille e Aiace, 530 ca,
Museo Gregoriano Etrusco, Città del Vaticano.
Nella storia dell’arte, ritratti e opere il cui soggetto fosse l’essere umano, si riscontrano sin dall’alba dei tempi; tanto per capirci basti pensare ai graffiti preistorici che raffigurano scene di caccia con umani stilizzati muniti di lance che rincorrono animali di grande levatura o le Veneri (ad esempio di Willendorf o Savignano) risalibili a più di 30.000 anni fa; o ancor più recentemente (dove per “recente” si intende 4000 – 2000 anni fa) all’arte pittorica murale egizia o a quella vascolare, pittorica e scultorea greca – etrusca e latina, che raffigurano uomini e donne intenti in danze, lavori manuali e ogni sorta di attività quotidiana, civile e bellica.

Giotto, Incontro alla Porta Aurea, 1303 - 05,
affresco, Cappella degli Scrovegni, Padova.
Di conseguenza è facile affermare che la ritrattistica o la resa di folle, ambienti abitati e scene di vita familiare raccontassero in modo esplicito o implicito i diversi rapporti sociali che legavano i soggetti alla società del loro tempo: esplicito appunto quando l’intersecazione tra i soggetti è evidente (la scena di un abbraccio, un bacio, un dialogo); implicito quando la raffigurazione di un soggetto racconta una sorta di parentela o rapporto di questo con il committente dell’opera o con l’artista che lo ha creato (fratellanza, amore, matrimonio, amicizia).

Una componente interessante e molto importante nella storia della ritrattistica e della resa di soggetti umani nella storia dell’arte è giustappunto da individuarsi nei rapporti che legavano quindi gli artisti con i modelli delle loro opere d’arte, che non sempre erano mercenari slegati da qualunque vincolo affettivo, anzi non di rado erano proprio legati ai loro datori da un rapporto di amore più o meno legittimo: in virtù di questo la storia dell’arte presenta diversi esempi di raffigurazione di soggetti che si sono scoperti essere amanti degli artisti autori di quelle opere, alcuni legati a vicende o curiosità sicuramente autentiche e particolari.

Raffaello, La Fornarina, 1518 – 1519, 
olio su tavola, Galleria Nazionale 
d’Arte Antica, Roma. 
Non è un caso che il primo esempio di rapporti amorosi tra artista e modello che prendo in considerazione per un racconto sommario dell’amore passionale tra artisti e modelli nella storia dell’arte, sia da riscontrarsi nel Rinascimento Italiano, in pieno ‘500. Infatti nella migliore delle evoluzioni dello status di artista nella storia, solo verso il XIII – XIV secolo iniziamo a vedere una sorta di emancipazione del ruolo di artista da quello di mero artigiano; per cui non è facile ricostruire le vite private di quei pochi artisti importanti che si sono distinti prima degli umanisti – rinascimentali.

Probabilmente quando parliamo di modelle amanti degli artisti del pieno rinascimento, la figura più emblematica da prendere in considerazione è quella che lega il più classico dei pittori alla più classica delle artigiane: l’amore tra Raffaello e tal Margherita Luti, sua modella per diverse opere, figlia di fornaio e quindi anch’ella fornarina.

Ed è proprio questo suo mestiere che prende il nome uno dei ritratti più affascinanti del pittore urbinate, che però nonostante la dicitura (il titolo all’opera fu imposto del XVIII secolo in seguito all’individuazione della modella) non ritrae la donna intenta nel suo mestiere ma nella grazia e nella delicatezza che più si confanno ad una donna angelicata in un momento intimistico. La donna infatti è seminuda, con una mano si regge il suo seno sinistro, con l’altra si copre le nudità già di per sé coperte da un drappo rosso. Il bracciale da schiava sul braccio destro, riporta le effigie del pittore: sicuramente un suo cadeau personale alla sua modella amata. Modella che non posò solo per il ritratto suddetto, ma anche nella tela de’ La Madonna Sistina e nella tavola de’ La velata. 

Raffaello, La Madonna Sistina, 1513 – 1514,
olio su tela, Gemaldegalerie, Dresda
Raffaello, La Velata, 1516, 
olio su tavola, Galleria Palatina, Firenze. 

Michelangelo, Il sogno, 1533, matita 
su carta, Galleria Courtauld, Londra. 
Ma non necessariamente i rapporti amorosi in epoca rinascimentale riguardavano gli artisti e le belle donne; non di rado infatti lo stesso tipo di amore trascinante e peccaminoso toccava toni omosessuali: Michelangelo o Leonardo erano dichiaratamente omosessuali, non ne facevano un vanto ma neanche un mistero, di certo però lasciarono testimonianze visibili dei loro amanti in disegni che riproponevano le fattezze di questi.

Michelangelo nella sua lunghissima vita ebbe molti giovani amanti, delle età più disparate, tutti molto belli e disponibili. In talune occasioni si lasciò così andare all’amore verso questi, da divenire quasi irrazionale nel sentimento provato: uno tra tutti il nobile Tommaso de’ Cavalieri, talmente bello agli occhi dell’artista, che questo non solo gli dedicò decine e decine di odi,  ma lo immortalò anche in diversi disegni di carattere sia sacro che profano. In particolare ne’ Il sogno, è desumibile tutto l’impeto e il vigore del giovane rampollo, adagiato nudo in una posa plastica che lascia trasparire uno studio approfondito dell’anatomia e della muscolatura esagerata tipica dell’uomo michelangiolesco.

Leonardo e Salaì, Monna Vanna, 
olio su tela, 1510 - 1520, 
Museo del Louvre, Parigi. 
Leggermente più complessa e meno evidente è la storia che lega invece Leonardo a Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì (derivazione di Saladino, ossia Diavolo). Non è attestato che i due fossero amanti, nonostante una denuncia per sodomia subita dall’artista in forma anonima proprio per via del suo attaccamento a questo. Di certo però è chiara la predilezione del genio poliedrico verso il ragazzo, che appare ritratto in diverse opere sotto forma sia di uomo che di donna: una peculiarità singolare quella dell’androginia artistica del ragazzo che fu anche egli pittore, attribuita in modo marcato alla Monna Vanna, dato che il suo viso è identico a quello di un qualunque ritratto del Salaì o in modo ancor più evidente a quello del San Giovanni Battista al Louvre; in modo leggermente più azzardato invece, addirittura, alle emblematiche figure di Monna Lisa e del San Giovanni de’ L’Ultima Cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano. Attribuzioni che di certo non fanno altro che aumentare l’alone di misticismo che da cinque secoli tocca i due soggetti nello specifico.


Leonardo, San Giovanni Battista, 1508 – 1513,
olio su tavola, Museo del Louvre, Parigi
Leonardo, Monna Lisa, 1503 - 1514,
olio su tavola, Museo del Louvre, Parigi.

Caravaggio, Il fanciullo con il canestro di frutta, 
1596, olio su tela, Galleria Borghese, Roma. 
Tre quarti di secolo più tardi fu Caravaggio uno degli artisti che più di altri seppe concedere ai suoi amanti, ruoli importanti in dipinti dal retrogusto tanto innovativo quanto polemico. Uomo dal carattere irascibile, furbo e canzonatore, fu grande amante di uomini e di donne, tra cui se ne individuano almeno quattro davvero importanti per il suo vissuto: Fillide, Lena, Mario e Cecco.
Mario Minniti fu amico e amante del pittore lombardo nei primi anni del suo soggiorno a Roma. Talmente fidato e importante per Caravaggio, che questi lo volle come modello per i suoi primi esperimenti, alcuni dei quali connotano una sorta di sensualità velata e ammiccante, come ne’ Il suonatore di liuto (di New York) o Il fanciullo con il canestro di frutta: lo sguardo di Mario nel dipinto è ammaliante, quasi volesse invogliare al peccato, aiutato nell’opera di seduzione dalla spalla scoperta ed il collo tirato all’insù.

Caravaggio, Amor Omnia Vincit, 1602, olio su tela,
 Staatliche Museum, Berlìno
Anche Cecco Boneri (all’anagrafe Francesco) fu molto importante per il pittore bergamasco, anche se non è attestato in modo certo che fosse un suo amante: di sicuro però amava il modo di fare del suo amico di avventure, che lo trascinava con sé nelle diverse scorribande in giro per la capitale dello Stato Pontificio.
Modello per alcune tele soprattutto di carattere biblico, in più occasioni Cecco appare nudo totalmente o parzialmente nel suo fisico asciutto e adolescenziale, come nell’Amor Omnia Vincit o il San Giovanni Battista di Palazzo Corsini a Roma, che presentano due versioni caratteriali dello stesso soggetto: la prima più sbarazzina e spensierata, la seconda più intimistica e raccolta.

Se però da un lato gli amori giovanili di Caravaggio furono omosessuali, quelli del periodo maturo riguardarono delle ragazze di bell’aspetto, cortigiane frequentate dal pittore e dai suoi amici.
Lena Antognetti era una delle cortigiane più ammirate della Roma dell’epoca, dato che era molto conosciuta perché lavorava con sua sorella Amabilia: insieme erano considerate tra le donne più belle della città. Caravaggio la ritrasse in opere di carattere religioso, che poco rendevano giustizia all’ars amatoria di cui ella era capace: basti vedere la responsabile Madonna dei Palafrenieri (o della Serpe) o la venerata Madonna dei Pellegrini.

Caravaggio, Madonna dei Palafrenieri, 1605,
olio su tela, Galleria Borghese, Roma
Caravaggio, Madonna dei Pellegrini, 1604 – 1606,
olio su tela, Basilica di Sant’Agostino, Roma

Caravaggio, Marta e Maria Maddalena, 1598, 
olio su tela, Institute of Arts, Detroit
E infine Fillide Melandroni, amata da Caravaggio sino ai suoi ultimi giorni a Roma prima della sua fuga, idolatrata, contemplata e santificata dal pittore nelle sue tele come nella Santa Caterina d’Alessandria o nella Giuditta e Olferne; resa talune volte la personificazione della bellezza e della vanità, come nella Marta e Maria Maddalena di Detroit o nel purtroppo perduto durante la Seconda Guerra Mondiale, Il ritratto della cortigiana Fillide.



Caravaggio, Santa Caterina d’Alessandria,
1599, olio su tela, 

Museo Thyssen Bornemisza, Madrid
Caravaggio, La cortigiana Fillide, 1597,
olio su tela, Kaiser Friedrich Museum, Berlino.
Opera distrutta nel 1945

F. Goya, La duchessa d’Alba, 1795, 
olio su tela, Collezione d’Alba, Madrid. 
Amori tormentati, impossibili e discutibili che ritornano continuando nell’analisi del tema, anche nella Spagna di fine Settecento, in una relazione che pare più da soap opera che reale – dato che non è attendibile da fonti certe: quella tra Francisco Goya e la duchessa d’Alba Maria Teresa Cayetana de Silva. Femme fatale, intrigante e molto astuta, fu ritratta dal pittore in più occasioni: celebre è il ritratto omonimo del 1795 in cui la donna appare in un sontuoso abito bianco fasciato di rosso ed una capigliatura riccia nera molto folta.

Altre voci narrano che il pittore avesse avuto avventure occasionali anche con Pepa Tudò, l’amante di Manuel Godoy, il committente delle due versioni de’ La Maya Desnuda e La Maya Vestida. Ma non essendoci fonti a riguardo si è propensi a credere che quelle a riguardo fossero solo voci di corridoio, a differenza invece della presunta relazione amorosa con la duchessa d’Alba che potrebbe essersi consumata nella località estiva di Sanlùcar dove entrambi risiedevano nei mesi più caldi, come si evince dai numerosi disegni riguardanti la duchessa d’Alba e donne nude dall’aspetto fisico molto somigliante, contenuti nell’album che prende il nome dal paese.

F. Goya, Maya Desnuda, 1800, olio su tela, Museo del Prado, Madrid

G. Courbet, Il sonno, 1866, olio su tela,
Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, Parigi
E se con Goya leggiamo di un artista che si divise molto probabilmente tra due donne, una modella che invece divise il suo amore tra due pittori fu Joanna Hiffernan. Probabilmente né il suo nome né il suo volto diranno molto, dato che ella è conosciuta nel globo per la sua vagina. Infatti Joanna fu la modella e con ogni probabilità amante di Gustave Courbet, il pittore che immortalò le sue nudità nella tela commissionatagli dal diplomatico turco – egiziano Khalil – Bey per le sue stanze private. Ovviamente il rapporto lavorativo tra pittore e modella non si limitò solo a L’Origine del Mondo, dato che l’artista la ritrasse nella sua incantevole bellezza sangue e latte in dipinti dal forte carattere sensuale come Il sonno, - che la ritraeva in un assopimento saffico con un’altra donna.

J. A. MN. Whistler,
Sinfonia in bianco No. 1,
 1862, olio su tela,
National Gallery of Art,
Washington
Un lato di Joanna lontano da quello illustrato da James Abbott McNeill Whistler, nella sua Sinfonia in bianco N.1, dove la modella con i suoi lunghissimi ricci rossi, squarcia un candore di sfumature chiarissime dato dall’intera ambientazione e dal casto abito lunghissimo. Joanna fu amante di Whistler ma anche compagna, rimanendogli affianco per ben sei lunghi anni: fu mentre era in viaggio con questo a Parigi che infatti incontro Courbet. Un pittore affascinante e malandrino a cui non seppe dire di no quando questo le propose di denudarsi per lui.

Un amore speso quello tra Joanna e Whistler, ostacolato dalla famiglia di lui che la vedeva come una poco di buono e sopravvissuto per anni ad incomprensioni e difficoltà di ogni tipo per poi finire a Parigi. Una vicenda che ricorda molto quella di un’altra coppia di amanti molto tormentata, vissuta a Parigi negli anni ’20 del Novecento: Amedeo Modigliani e Jeanne Hepbuterne.

A. Modigliani, Ritratto di Jeanne Hebuterne, 
1919, olio su tela, Collezione Privata. 
A differenza della classica modella pagata per il suo lavoro, spesso accondiscendente o spavaldamente prostituta, Jeanne Hepbuterne fu compagna devota del pittore maledetto, tanto da convivere con lui e dargli una bambina, (cosa non così anomala considerando che circa vent’anni prima anche Matisse ebbe sua figlia Marguerite da una modella, Caroline Joblau, prima di sposare la sua moglie storica Amelie). Ma con la morte di Modigliani nel 1920, anche Jeanne, incinta di nove mesi del suo secondo figlio, si gettò dal balcone della sua casa a Parigi, vedendosi impossibilitata a vivere senza l’amore ragione della sua vita.

Tutto il contrario di Marcella, la modella ragazzina del pittore Ernst Ludwig Kirchner, spavalda nella sua consapevolezza di forte carica erotica celata dal trucco così forte da farla apparire più grande. Marcella è una prostituta ancora in fase di crescita, - così come la modella più pudica de’ La pubertà di Edvard Munch – ripresa dall’artista anche in un’altra tela più tarda di qualche mese in cui appare quasi succube del suo lavoro, annoiata di quella consapevolezza di cui era rimasta affascinata sino ad allora.

E. L. Kirchner, Marcella, 
1909, olio su tela, 
Moderna Museet, Stoccolma. 
E. L. Kirchner, Marcella, 1910,
olio su tela,
Brücke-Museum, Berlino
E. Munch, La pubertà,
1895, olio su tela,
Galleria Nazionale, Oslo

F. Bacon, Ritratto di George Dyer che parla,
1966, olio su tela, collezione privata
La bellezza, la sensualità quindi, le armi usate dalle modelle per ammaliare gli artisti per cui posavano, più che l’intelligenza e la caparbia. In fondo quello della modella era un lavoro semplice che non implicava chissà quale arte della diplomazia o virtù da portare in dote. Ma lo stesso non poteva dirsi dell’amante più ambito dall’artista Francis Bacon: quando conobbe George Dyer, questo era un ladro di trent’anni poco credibile ed esperto, che, secondo una delle due versioni ufficiali, conobbe l’artista mentre era intento a rubargli in casa (l’altra versione vede un incontro fortuito a tre in un bar con il fotografo John Deakin). Eppure il pittore rimase così affascinato dall’uomo, da stilizzarlo in più ritratti che valevano come studi sul soggetto, opere dal valore inestimabile, dato che, proprio il Ritratto di George Dyer che parla, è il quadro venduto in Europa, più pagato di tutti i tempi.