mercoledì 23 aprile 2014

Lo specchio nell'arte: l'effetto, lo sconfinamento, la modifica della realtà.

Cratere proveniente dalla Magna Grecia,
IV secolo a.C., British Museum, Londra.
Lo specchio è un oggetto riscontrabile in più riprese nella storia dell’arte di tutti i tempi; addirittura si può tranquillamente addurre che è uno di quegli elementi presi in considerazione dagli artisti nelle loro opere, che non hanno mai visto periodi di abbandono: esulando infatti dall’ideazione artistica del mero oggetto, l’arte dello specchiarsi è riscontrabile sin dall’antichità, come testimoniato dai diversi vasi greci e romani, raffiguranti donne intente a vaneggiarsi con uno specchietto tra le mani. E ancora continuando, questa realtà è riscontrabile sino ai giorni nostri attraverso dipinti dal soggetto invariato, dalla Donna allo specchio del Tiziano, alla medesima di Fernando Botero, passando per la Venere allo specchio di Piet Paul Rubens e La toilette di Ernst Ludwig Kirchner.

Tiziano, Donna allo specchio, 1512 – 1515,
olio su tela, Louvre, Parigi
P. Rubens, Venere allo specchio, 1613, olio su tavola,
Staatliche Kunstsammlung, Vaduz

E.L. Kirchner, La toilette, 1912, olio su tela,
Museo d’Arte Moderna, Colonia
F. Botero, Donna allo specchio, 2003,
olio su tela, collezione privata.

Ma l’utilizzo dello specchio, in arte non è solo riscontrabile all’azione intrinseca derivante, ma in più occasioni è valso quale elemento per uno studio particolare degli effetti ottici e dei rimandi simbolici legati ad esso. In quest’ultimo caso infatti, è sicuramente interessante notare il legame creato da Hieronymus Bosch nello scomparto raffigurante La superbia, ne’ I sette peccati capitali del 1500 – 1525 tra lo specchio ed il demone che lo sorregge: lo specchio nel quale si riflette l’immagine della donna superba infatti, diviene il mezzo del peccato di vanità, pertanto viene retto dal suo massimo rappresentante, il diavolo, che per l’occasione, imita la peccatrice nell’acconciatura.

H. Bosch, I sette peccati capitali, 1500 – 1525,
olio su tavola, Museo del Prado, Madrid
H. Bosch, La Superbia (part. de’ I sette peccati capitali)
 1500 - '25, olio su tavola, Museo del Prado, Madrid. 

Sul piano ottico, sicuramente è interessante notare lo studio dicotomico del riflesso proveniente dallo specchio. Dicotomico perché, l’interesse dei diversi artisti che si sono messi alla prova, è vertito verso due diverse strade, entrambe tecnicamente valide: la prima, volta a catturare gli effetti della convessità di uno specchio; la seconda, volta a catturare il gioco dei volumi creato dalla posizione particolare degli specchi durante il ritratto di un soggetto.

J. Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, 
olio su tavola, National Gallery, Londra. 
Uno degli artisti che ha reso perfettamente la realtà proiettata in uno specchio convesso è stato Jan Van Eyck, che ne dà prova di maestria nella tavola raffigurante il Ritratto dei coniugi Arnolfini, del 1434. Nella tavola del Van Eyck, come da piena tradizione fiamminga (riscontrabile di lì a pochi anni anche in Bosch, ne’ I sette peccati capitali), la simbologia ha un ruolo cardine nel racconto del matrimonio dei due ricchi banchieri lucchesi trasferitisi a Bruges per affari: il vetro dello specchio infatti allude alla purezza della donna, mentre la cornice decadivisa in scomparti, accoglie elementi della Passione di Cristo, nel pieno della spiritualità cristiana della coppia.

Ma è l’effetto ottico che ne deriva, che rende Van Eyck uno dei pionieri dello sconfinamento del supporto: infatti per la prima volta nella storia dell’arte, lo specchio riflette sin nella minuzia quanto sta accadendo dietro, riproponendo non solo gli ambienti che si dislocano oltre la stanza rappresentata, ma anche i personaggi non presenti nel dipinto, che però quindi, ne diventano involontariamente parte integrante: oltre al pittore, vengono raffigurate anche altre due persone, probabilmente i testimoni della coppia, una prova schiacciante – ancora una volta – della benedizione cristiana del matrimonio celebrato.

J. Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini (particolare specchio), 1434, olio su tavola, National Gallery, Londra. 

R. Campin, Trittico di Werl 
(ala sinistra), 1438, 
olio su tavola, 
Museo del Prado, Madrid. 
Questo quindi è quello che accade a seguire, sia nella di poco più tarda tavola del Trittico di Werl di Robert Campin (1438), che segue i dettami del Van Eyck circa lo sconfinamento della realtà raffigurata nella tavola, sia nel dipinto del Sant’Eligio nella bottega di un orafo, dipinta da Petrus Christus nel 1449: l’introduzione di uno specchio convesso che ci sballotti la vista su quanto non potremmo vedere raffigurato nel palco della tavola, pare essere divenuto quindi un must dell’arte fiamminga del tempo.

Il soggetto è quotidiano seppur sacro; Sant’Eligio, protettore degli orafi, misura dell’oro e svolge il normale lavoro di un suo protetto, davanti ad una coppia di fidanzati. Quel che sorprende ancora una volta però, per l’appunto è quanto viene riflesso dallo specchio, che apre all’ambiente esterno della destra dei soggetti raffigurati: un ambiente aperto in cui si scorgono una piazza e alcune abitazioni, mentre in primo piano un falconiere ed una donna passeggiano, forse intenti ad entrare nella bottega.


P. Christus, Sant’Eligio nella bottega di un orefice, 
1449, olio su tavola, Metropolitan Museum, New York.
P. Christus, Sant’Eligio nella bottega di un orefice (part.), 
1449, olio su tavola, Metropolitan Museum, New York.

E con un balzo in avanti di quasi un secolo, al 1525 è ascrivibile uno degli autoritratti davanti allo specchio più conosciuti e rinomati: quello che il Parmigianino eseguì in giovane età (22 anni) riproducendo le sue fattezze per come apparivano alla vista di uno specchio convesso, su una tavola fatta creare appositamente anch’essa convessa per una resa più credibile.

Ed è proprio il Vasari a raccontare l’esecuzione dell’opera e lo studio particolarmente attento al dettaglio: un gioco, quello attuato dal Parmigianino, volto ad ingigantire e diminuire le diverse parti del corpo in base alla vicinanza o alla lontananza dal piano, per cui la risultante è stata un autoritratto alquanto veritiero dato da una mano in primo piano, giustamente di molto più grande e sinuosa rispetto al corpo più lontano, ed un arrotondamento sferico dell’ambiente circostante nel quale spicca la finestra (soggetto che ritroveremo riproposto da Maurits Cornelis Escher, nella litografia della Mano con la sfera del 1935, con la variante della sfericità dello specchio piuttosto che della convessità).


Parmigianino, Autoritratto allo specchio, 1524,
olio su tavola convessa, Kunsthistorisches Museum, Vienna. 
M.C. Escher, Mano con la sfera, 1935, litografia. 

Caravaggio, Narciso, 1597 - 1599, olio su tela,
Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma.
Un elemento quindi, quello dello specchio convesso, che ha affascinato diversi geni dell’arte, non di meno Caravaggio, che nella sua Marta e Maria Maddalena del 1598, sposa entrambe le realtà analizzate: infatti, non solo qui il maestro lombardo dà abile sfoggio della sua tecnica rendendo in modo ottimale la convessità dello specchio, (lo squarcio prorompente della luce attraverso la finestra rettangolare consegna alla superficie sferica scura, un contrasto meraviglioso), ma gli relega anche il valore simbolico della vanità, il peccato di cui la biblica Maria Maddalena si macchiava, prima della conversione seguita al convincimento da parte di sua sorella Marta.

Ma d’altronde lo stesso Caravaggio non era nuovo a questo tipo di studi, dato che negli stessi anni aveva eseguito il Narciso, che, come da racconto mitologico, rimane abbagliato dalla sua fulgida bellezza nel mentre che si rispecchia in un bacino. È interessante qui notare non solo l’ammaliamento del ragazzo che per la prima volta si rispecchia, ma anche il gioco di luce che si crea tra realtà e riflesso, dove la prima vive del bagliore della luce, e la seconda della quiete delle tenebre, quasi a preannunciare quanto sarebbe accaduto di lì a pochi attimi,(la morte per annegamento di Narciso, caduto in acqua per essersi spinto troppo in avanti verso la sua figura riflessa).


Caravaggio, Marta e Maria Maddalena, 1598, olio su tela, Institute of Arts, Detroit. 

D. Velazquez, Las Meninas, 1656, 
olio su tela,  Museo del Prado, Madrid. 
Mentre, il gioco procurato dalla disposizione degli specchi, nella resa dei soggetti, vede tra i massimi esponenti degli artisti che l’hanno praticato, Diego Velazquez, che nel suo dipinto Las Meninas, dispone gli specchi in un modo talmente ricercato e sublime, da ispirare interi saggi filosofici ed artistici sulla questione. Infatti, analizzando il dipinto, notiamo una sorta di stordimento della realtà: a primo acchito parrebbe che il soggetto del dipinto sul cavalletto di spalle in primo piano sia proprio l’Infanta Margherita Teresa, attorniata dalle sue damigelle, salvo scoprire ad un’analisi più dettagliata, che l’opera si presenta più complessa di quello che pare. Infatti, essendo presente l’artista all’interno della tela, parrebbe che tutta la composizione fosse stata dislocata dinanzi ad uno specchio, ma a dimostrare il contrario ci pensa la raffigurazione dei due regnanti di Spagna, nello specchio dietro l’Infanta, che lascia capire come i due sovrani siano dinanzi al pittore, che per l’occasione li sta ritraendo, e come quindi siano loro i destinatari della tela, e non chi si approccia a guardarla: insomma, si potrebbe affermare che lo specchio in lontananza, rivela che quanto ritratto è la visione che in quel momento hanno avuto i sovrani, di quanto stesse per essere dipinto.

J. Gumpp, Autoritratto, 1646, olio su tavola,
Galleria degli Uffizi, Firenze
Una realtà sperimentata anche da Johannes Gumpp dieci anni prima, nel 1646, nel suo Autoritratto conservato agli Uffizi: una scomposizione particolarmente attenta e riproposta in più riprese nella resa della volto, come dimostra la tavola, che raffigura il pittore di spalle, (aiutato nella resa, probabilmente da un altro specchio avanti a sé), intento a specchiarsi e a riproporre il volto identico sul supporto (un documento storico, volendo, dell’esecuzione di un autoritratto).
Più di due secoli dopo, ritroviamo lo specchio quale protagonista assoluto della tela, ne’ Il bar delle Folies Bergére di Edouard Manet, dove lo specchio dietro il bancone su cui sono disposte le bottiglie e la frutta per i clienti, rivela una sala immensa gremita di persone elegantemente agghindate, intenta a socializzare e desinare. Dallo specchio noi intendiamo quindi gli spazi del bar ma non solo, anche il tempo di svolgimento dell’azione: la sera.

E. Manet, Il bar delle Folies Bergére, 1881 - 1882, olio su tela, Courtauld Gallery, Londra.

Ma lo specchio oltre che come rivelatore di effetti ottici straordinari, è stato usato anche per rivelare quella che è l’anima del soggetto raffigurato: tanto per citare un artista capace di questo tipo di ragionamento emozionale nelle sue opere, sono da considerarsi due tele di Pablo Picasso, emblematiche perché da queste è ravvisabile quasi una sorta di rivelazione del vero sentimento, attuata dallo specchio nei confronti del soggetto intento.

Infatti sia ne’ La donna allo specchio, del 1932, sia ne’ L’Arlecchino allo specchio, del 1923, è ravvisabile nei soggetti una sorta di espressione cupa e triste, del tutto rafforzata e indotta dallo specchio: se nel primo caso vi è un confronto che concretizza in modo più marcato l’espressione non giubila provata dalla donna, nel secondo caso lo specchiarsi, induce l’arlecchino a prendere visione dei suoi reali sentimenti: la faccia infatti è quella tipica del lacrimevole Pierrot, nonostante il costume dell’allegro servo bergamasco. Ma d’altronde lo specchio rivela sempre chi abbiamo davanti, per cui non è mai possibile mentire a noi stessi, ed evidentemente quell'Arlecchino lo sapeva bene. 


P. Picasso, Ragazza allo specchio, 1932,
olio su tela, Moma, New York.
P. Picasso, Arlecchino allo specchio, 1923, 
olio su tela,  museo Thyssen-Bornemisza, Madrid.

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