giovedì 13 febbraio 2014

The Great Wall of Vagina, di Jamie Mc Cartney

Più volte ho discusso circa l’artisticità dell’organo sessuale (maschile e/o femminile), che nel corso dei secoli ha ottenuto fortuna critica come nel caso del pluricitato Origine del mondo di Courbet, tanto da ravvisare una sorta di artisticità anche in una radiografia di  un mio testicolo, che avvalorata da una buona spiegazione si è evoluta nell’opera d’arte Messa a nudo

Un’opera d’arte che ha lasciato perplessità nel pubblico che ha avuto modo di contemplarla. Se da un lato infatti qualcuno non è andato oltre il semplice dato di fatto materico per cui quella è e sarà soltanto una radiografia, dall’altro qualcun altro ha appoggiato la tesi provocatoria dell’opera d’arte, esulando dal supporto e basandosi sul suo significato: insomma, perché una vagina dipinta è arte ed un testicolo radiografato non può esserlo?
(NB: La mia voleva essere solo una provocazione all'ormai labile senso di artisticità consegnato a qualunque opera degnamente segnalata dal mercato: Messa a nudo non è una vera opera d'arte ma solo una simpatica idea provocatoria.)

Beh, nel mezzo dell’accesa discussione si colloca l’opera d’arte di un artista inglese, Jamie Mc Cartney, classe 1971, che ha fatto dell’organo genitale femminile la sua fortuna artistica.
Laureato in Arte Studio sperimentale alla Hartford Art School, che premette un atteggiamento artistico di stampo innovativo, la peculiarità dell’arte cartneyana è senza dubbio da riscontrarsi nel suo approccio alla produzione tridimensionale di diverse parti del corpo.

Summa di questo lavoro è l’intuizione di esporre su una parete a Berlino nel 2008, un fregio lungo 9 metri, riportante 400 calchi vaginali di altrettante modelle, diviso in 10 pannelli: vulve di ogni età (dai 18 ai 76 anni), dimensione e forma, appartenenti a donne e transessuali, nonne, madri e figlie; vagine di donne già madri o non ancora tali, soggette o meno a labioplastica.

J. Mc Cartney, The Great Wall of Vagina (pannello), 2008, calco in gesso, Berlino.

J. Mc Cartney durante l'installazione dell'opera The Great Wall of Vagina
L’opera d’arte in questione si chiama The Great Wall of Vagina, e a quanto dichiarato dall’autore, è nata con lo scopo di contrastare la convinzione sempre più preponderante nel mondo occidentale che la labioplastica sia necessaria anche laddove non ci siano problemi di fisicità, ma solo di un’insicurezza di fondo che porta la donna a non accettarsi completamente. Il muro è un’evidente dimostrazione dell’armonia e della bellezza dell’apparato genitale femminile: esporre testimonianze più disparate porta l’utente a conoscere le diverse realtà quindi a rivalutare l’idea di modificare inutilmente una parte di sé che va bene per com’è.

Anche sull’approccio ai calchi tende a specificare che non ha provato alcun piacere legato ad una sfera erotica, perché il suo lavoro ha previsto rapporti sociali con 400 donne ancor prima che con 400 vulve: ogni donna ha raccontato qualcosa all’artista, gli ha lasciato una parte di sé quasi come a caratterizzare di una distinta personalità quel calco che le apparteneva, individuo di suo già nella conformità fisica.

J. Mc Cartney, The Great Wall of Vagina, 2008, 9 pannelli con calchi in gesso, Berlino. 

Un monito questo, a chi vuole provocatoriamente vedere nel Great Wall of Vagina un’opera erotica o pornografica, anziché uno strumento di riflessione e conoscenza, che non guarda in faccia a nessun tipo di discriminazione sociale o razziale, come dimostra la decisione di lasciare il gesso neutro nel suo candore, a preservare uguaglianza tra donne bianche e di colore.


sabato 1 febbraio 2014

L'arte vomitata di Millie Brown

Nell’ultimo post, in cui descrivevo l’arte contemporanea come un inno alla provocazione talmente invocato da apparire ormai in alcuni contesti anche poco credibile, non avrei mai immaginato di ritrovarmi a discutere di un’artista che si esprime in un modo sicuramente provocatorio, di certo discutibile.
Se la mostra del 2006 Ojo del culo al Serralves di Oporto si è dimostrata essere poi una bufala che ha avuto effetto virale sui social network da Facebook a Twitter, passando per Ask, sicuramente ciò che sto per raccontare ha dell’incredibile, altresì del veritiero: l’arte può essere vomitata.

M. Brown, Pastel 01, 2013, vomito su tela, collezione privata.
Vomitata?! Quale volgare e scurrile appellativo da associare all’arte, penserete voi! Beh è quello che ho pensato anche io prima di assistere alla visione della performance di Millie Brown, quotata artista emergente londinese, già attiva sul campo dalla tenera età di 17 anni: fondatrice con altri suoi colleghi, nel 2003, del !WOWOW!, una collettiva improntata sulle diverse arti sceniche, performative e materiali, si è fatta conoscere nel panorama dell’underground londinese tanto da essere considerata ad oggi, una delle artiste più affermate e credibili dell’UK, collaborando con artisti di fama internazionale nonché avendo curato il Monster Ball Tour al Madison Square Garden di Lady Gaga.

Millie Brown durante un'esecuzione
Ebbene l’arte vomitata di Millie Brown, non ha bisogno di eclatanti spiegazioni. In un gioco volto a fondere tecnica pittorica e performance, l’artista in un clima ovattato da voci e musiche eteree, di volta in volta ingerisce calici pieni di colori brillanti, per poi rimetterli sulla tela: una lenta restituzione del colore che nell’impatto con la tela ricorda l’Action painting di Pollock, ma a differenza di questo si rivela meno irruente nel getto, che sgorga come linfa vitale dalla bocca e cola lentamente, secondo una visione più intimistica ed organica del sentimento.


Millie Brown dipinge una tela con il vomito
La sua filosofia ed il suo metodo sembrano aver riscontrato sin dall’esordio a Berlino nel 2006, credibilità tra i critici, i galleristi ed il pubblico più vario, tanto che la performer ha già esibito le sue opere e si è già espressa in importanti gallerie e musei, aderendo a numerosi festival e competizioni artistiche. Tra questi la Chapman Fine Arts, la The Union Gallery, lo SHOWstudio, il The Birmingham Art Festival, la Gallery La General Paris, il Transmedial Art Festival Berlin, la General Public Gallery Berlin, il B22 Hamburg, l’Illoulian Contemporary Los Angeles, lo Strand Gallery London, il The Cob Gallery London ed il The Moving Museum.

Come ha spiegato più volte la performer creatrice di arcobaleni, - tele vendute a migliaia di dollari – la sua performance non è lasciata al caso ma è ragionata in ogni suo passo, prevedendo una preparazione psicofisica di alcuni giorni, nei quali evita di mangiare per lasciare il corpo puro onde evitare di vomitare altro che non sia colore, che, per chi se lo chiedesse, ovviamente non è tossico, essendo composto da latte di soia e coloranti per alimenti. 

M. Brown - N. Knight, Nexus Vomitus,
2013, vomito su tela, collezione privata
Per chi fosse interessato a saperne di più della sua arte e del suo portfolio, linko a seguire i siti di riferimento in cui poter ammirare la sua arte: tra questi il suo sito ufficiale, la pagina ufficiale facebook ed il suo blog.

Latte di soia colorato, utilizzato da Millie Brown sulle sue tele.