martedì 29 ottobre 2013

La superbia del Guggenheim di Bilbao

Bilbao attraversata dal fiume Nervion
“Ma perché proprio un ragno all’entrata del Guggenheim di Bilbao?”
Una domanda che mi ha spiazzato e mi ha lasciato ragionare sulla validità del simbolismo. Perché secondo me di questo di trattava e dopo qualche ricerca, felicemente, posso affermare che sia così, dato che la risposta data da una saccente architetto, presente alla discussione è stata “Per poterci passare tra le zampe”.

Ma partiamo dall’inizio. 
Un breve preambolo è necessario a capire come si è arrivati a questa domanda.
Ebbene, sto seguendo un corso PON di spagnolo, sicché nella prima lezione, quella introduttiva, la maestra Sofia ci ha illustrato Bilbao, la città da cui proviene, situata a nord della Spagna, nei Paesi Baschi. 
E ovviamente, dato che a livello artistico la città è rinata nel 1997, grazie all’accordo tra l’amministrazione comunale e la Fondazione Solomon R. Guggenheim di New York, Sofia non poteva non accennare alla costruzione del museo ad opera dell’architetto canadese Frank Gehry.

F. Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao
Un museo che senza dubbio ha rivoluzionato la concezione dell’architettura contemporanea, in un’apoteosi di intersecazioni lineari, forme esasperate e materiali leggerissimi, rientrando così nella corrente artistico-architettonica della Sulturarchitettura.

Concepito su tre livelli abitativi più un quarto per i diversi impianti di refrigerazione, condizionamento ed elevazione, il museo è infatti uno degli edifici simbolo del più preciso ingegno umano: basti pensare che per il totale rivestimento esterno della struttura si è fatto fronte a più di 60 tonnellate di titanio, 27.000 m2 di pietra chiara di Granada e 2500 pezzi di cristallo termico per le superfici trasparenti.

Stessa rivoluzione delle forme però, non riguarda anche gli interni, sicuramente più dolci e neutri nell’intersecazione delle pareti; una soluzione necessaria alla comprensione ed alla valorizzazione delle opere d’arte ivi contenute: la collezione del Guggenheim riguarda l’arte contemporanea,  spaziante da Basquiat a Warhol, da Salle a Rauschenberg.
(Per una completa visione delle opere e degli artisti presenti, clicca qui)

R- Rauschenberg, Barge, 1962, olio e inchiostro serigrafato su tela, Guggenheim Museum, Bilbao. 

J. Koons, Puppy, 1992, fiori su struttura,
Guggenheim, Bilbao 
Premesso tutto questo è possibile quindi affermare, - includendo la fastosità del gigantesco cane Puppy, composto da 70.000 fiori, che fa da guardia al museo – che l’intero assetto museale è stato voluto, creato e sviluppato, sotto un’aurea di superbia spropositata fusa a senso di magniloquenza e voglia si superamento di ogni limite.
Alla fine la frase di compiacimento dello stesso architetto Gehry ha confermato questo: “Costruire questo museo è stato come costruire Notre Dame, ma dopo”. Una frase che non lascia molto adito a fraintendimenti e fa presagire un senso di onnipotenza, autocompiacimento e soddisfazione.

Ed è qui che subentra il ragno di bronzo prima della scalinata che volge al fiume Nerviòn, opera dell’artista Louis Bourgeois alto quasi una decina di metri.
Il ragno infatti, per quanto sul piano del pensiero artistico-filosofico dell’artista, riconduca alla sessualità ed alla maternità – la statua è completa anche della sacca delle uova – sul piano della simbologia, rappresenta la superbia, sul dettame del mito di Aracne.

L. Bourgeois, Ragno, 2001, Ferro, Guggenheim Museum, Bilbao. 
L’abile tessitrice, che soleva ripetere di essere più brava della dea Atena, protettrice delle arti, fu da questa sfidata per via della sua superbia. E dando filo da torcere alla dea, fu trasformata dalla stessa proprio in un ragno, costretto a tessere per tutta la vita dalla propria bocca, che era stata portatrice di tanta spavalderia della donna.

Quel ragno quindi ha un significato, anche molto profondo. È un monito che suole ricordare che la perfezione non esiste anche laddove è lampante, che nonostante imprese titaniche, bisogna sempre rimanere coi piedi per terra e ragionare costantemente con umiltà e modestia.
Quella modestia che proprio manca all’imponente ed articolata struttura del museo che, prima di-custodire opere d’arte, è esso per primo un’opera d’arte.

Panorama di Bilbao con Guggenheim Museum in primo piano. 

martedì 22 ottobre 2013

Alice Pasquini, in arte (di strada) Alicè

L’arte non sempre è fonte di unanime comprensione. Lo scandalo dettato dalla - probabilmente bufala – mostra Ojo del culo tenutasi nel 2006 alla Fondazione Serralves di Oporto, ne è la dimostrazione lampante: se da un lato qualcuno ha voluto ravvisare nell’esposizione solo una trovata pubblicitaria per avvicinare gli amanti del trash e del volgare all’arte, dall'altro qualcun altro ha appoggiato in pieno le motivazioni che spingerebbero a considerare gli scatti fotografici raffiguranti gli orifizi anali, come delle vere e proprie opere d’arte. Lungi da me, capire su quali criteri.

Premetto ciò, in virtù dell’artista che sto per raccontare, esponente di spicco della Street Art, in tutto il mondo.
Ebbene, proprio la Street Art non è considerata all’unanimità uno stile artistico, laddove al contrario appunto, viene etichettata come un modo elegante per imbrattare pareti, muri e strade.
Una considerazione che potrebbe essere presa per veritiera sicuramente alla visione di certi scempi dettati da inesperti del settore, che muniti di bombolette spray, imbrattano con scritte alquanto aberranti le vie di periferia e del centro delle città; ma che è ben lontana dalle esecuzioni della writer Alicè.

Spraylitz, la creatura di Enoch,
appassionata di graffitismo.
Nata a Roma nel 1980, Alice Pasquini, vero nome dello pseudonimo Alicè, ha da sempre inseguito la strada dell’arte laureandosi all'Accademia di Belle Arti della sua città di nascita.
Forte di un’ottima base tecnica ed artistica, ha quindi vissuto e lavorato in diversi paesi europei, dalla Gran Bretagna alla Francia, e ancora in Spagna.
Ed è proprio nello stato iberico, che Alice segue dapprima corsi di animazione presso l’Ars scuola animación a Madrid, e poi nel 2004 consegue un Master in critica d’arte presso la Universidad Computense, sempre nella capitale.

Una volta conclusasi la sua carriera universitaria, il mondo di Alicè si è aperto quindi ad un bivio: se su un piano concreto, l’artista si è trovata costretta a lavorare come scenografa per grandi magazzini e parchi giochi, sul piano creativo si avvicina sempre più alla Street Art sino ad innamorarsene; un amore, giunto attraverso la lettura dei fumetti di Luca Enoch, la cui protagonista Spraylitz era una studentessa liceale appassionata di graffitismo.

Le sue creazioni quindi, autentiche opere d’arte elegantemente rifinite ed incisive, analizzano soprattutto il mondo visto dagli occhi di donne forti e combattive, pronte a far valere i propri diritti in un mondo ancora fortemente misogino. Ma le donne di Alicè sono donne che amano, che si lasciano anche andare ai sentimenti, senza mai dimenticare la loro forza interiore.


Lasciando segnali forti in città importanti come Roma, Parigi, Sydney, Oslo e New York – solo per citarne alcune – Alicé è riuscita ad ammaliare non solo la critica artistica che le ha riconosciuto talento e qualità esecutiva, ma anche la critica giornalistica che ha ravvisato in lei un punto di incontro tra l’arte e il graffitismo scevro dal vandalismo spicciolo.

Ma nonostante la ormai notorietà della writer, pare che in seguito ad alcune affermazioni dell’artista al Corriere di Bologna, - la Pasquini aveva dichiarato in un’intervista di essere l’artefice dei graffiti presenti in alcune vie bolognesi – la stessa sia indagata dal Comune della città per imbrattamento “continuato”; se risultasse colpevole rischierebbe quindi un anno di reclusione o il pagamento di una multa superiore a 1000 euro.


Un paradosso notevole, se si considera appunto che ogni città in cui l’arte murale di Alicè è presente, vanta la cosa.

Ma d’altronde la storia della Pasquini è la storia di tanti writers talentuosi che non si sono mai scrollati di dosso nella loro vita l’accusa di essere imbrattatori di muri; uno fra tutti Keith Haring, che agli inizi della sua carriera di writer, non di rado finiva dritto nelle caserme dei più disparati quartieri di New York.  


sabato 19 ottobre 2013

La grande bellezza: il film del nulla

Locandina del film La Grande Bellezza.
Nella gastronomia di qualità, quella tanto ambita da cuochi insigniti di stelle Michelin e richiesti nelle migliori corti nobili e borghesi, i piatti ricercati, eleganti nell’aspetto e custodi di sapori studiati a menadito, solitamente risultano appetibili solo ai palati preparati e sopraffini, habituè di una tale cucina e non a quelli più rustici tipici del cittadino medio.

Ebbene a mio parere, questo paragone è adatto alla visione de’ La grande bellezza di Paolo Sorrentino, che per quanto abbia vinto diversi premi importanti, sia stato scelto come rappresentante italiano alla sezione miglior film non in lingua inglese ai Premi Oscar e sia stato osannato dalla critica cinematografica come un capolavoro, probabilmente non è stato capito dal destinatario primo: il popolo.

Benché se ne possa dire infatti, il film, che dura pressappoco due ore, mostra discontinui e brevi segni di chiarezza durante lo svolgimento di una trama pedante e complessa: sta allo spettatore, laddove riesce per educazione, disciplina e preparazione, a cogliere le sfumature, le connessioni, i riferimenti alla società attuale.

La storia è presto detta. La racconto in poche righe così da non spoilerare poi così troppo chi non ha avuto ancora il piacere di guardare il film, sia per non dilungarmi su quanto è possibile visionare su Wikipedia: Gep Gambardella - un superbo Toni Servillo - è un giornalista di successo, famoso per aver scritto un libro in età giovanile, capace di segnare la sua fortuna. Tra feste ricche, borghesia e nobiltà scialba e una sagacia fuori dall’ordinario, vive la sua vita fatta di pensieri profondi ed azioni frivole, sino a che la morte del suo unico e grande amore, vissuto in gioventù e mai dimenticato, bussa alla sua porta e lo porta a rivedere le sue posizioni.

La festa di compleanno di Jep Gambardella


Momento di tregua tra Jep e Stefania 
E il cambiamento, la necessità di abbandonare l’ipocrisia di una Roma bene che nasconde la sua omologazione dietro l’evidente mondanità, si notano sin da subito quale effetto bombardante del lutto improvviso. Come nel caso dell’attacco incisivo alla giornalista e scrittrice Stefania, - Galatea Ranzi - ipercritica della generazione di oggi e talmente arrogante sul piano carrieristico da ergersi a fulgido esempio di lavoratrice perfetta e moralmente ineccepibile: con esempi mirati, le parole del protagonista illustrano la visione orrenda di un presente e futuro ormai al degrado, in cui non vi è più segno di moralità.

Jep cerca risposte dal Cardinal Bellucci 

Una moralità inneggiata, strascicata e difesa a spada tratta quando meglio fa comodo, come nella vicenda dei conti Colonna, disposti sì a farsi noleggiare quali comparse per cene e quant’altro, ma non a dover impersonare altri nobili (nel caso specifico gli Odelscalchi): una richiesta umiliante per la loro casata, che non ha problemi a mettersi in vendita su prenotazione, ma che ne ha a non dover riconoscere il suo nome; stessa cosa si evince nella figura del Cardinal Bellucci – Roberto Herlitzka -  quotato a ricoprire in futuro la carica di Papa, esperto di culinaria e vita mondana, ma ben lontano dal primordiale senso di spiritualità.

La piccola Carmelina, perfomer enfant prodige 
Anche l’arte vive la sua sana critica nel film; una critica mirata a carpirne il senso attraverso il mondo che la circonda e le persone che la malleano: un’arte che diventa una mela squisitissima fuori ma marcia dentro, quando marcio è il sistema che permette di esportarne la sua bellezza. Ed è così che la piccola Carmelina,  -Francesca Amodio - enfant prodige esponente di tele connotate da una forte carica espressionista, non desiderando altro che vivere la sua infanzia come una qualunque coetanea e non sotto il peso incombente del lavoro, dipinge piangendo; ed è così che la diva della performance Talia Concept, - Anita Kravos - mira ad abbindolare stupidi allocchi con studiati trucchetti.

È divertente notare lo smantellamento della poetica di Talia, che "vive di vibrazioni", sotto il pressante intercedere dissacratorio del giornalista Gep, fermo a chiederle ripetutamente cosa ella intendesse per vibrazioni; così come è logorante assistere alla struggente dimostrazione live di Carmelina che getta sulla tela ogni malessere, ricoprendo se stessa del male che l’ha resa una stella dell’arte: il colore.

La performance di Talia Concept.

Ed è qui che arriva chiaro il mio monito a riguardo della preparazione dello spettatore medio del film: non tutti sicuramente hanno rivisto in Talia, la performer Marina Abramovic e nella piccola Carmelina, la bambina prodigio australiana Aelita Andre. Ovviamente i personaggi del film sono macchiette di una realtà decisamente diversa, nonostante la triste constatazione di una Marina sempre più commerciale e di un’Aelita probabilmente vista dai suoi genitori come una macchina da soldi.

Il detentore delle chiavi, apre la porta del Giardino degli Aranci
Ma sul piano artistico l’arte ha anche i suoi lati positivi in quella pellicola. Non tanto sul piano narrativo, quanto su quello scenico almeno. La consequenzialità delle gallerie e dei giardini, dei palazzi, delle sculture e dei dipinti che rendono grande Roma, sotto la visita ad opera del detentore delle chiavi – un meraviglioso Giorgio Pasotti che non avevo riconosciuto – accendono gli animi anche del peggior estimatore e lasciano nel cuore quella serenità d’animo e di speranza che solo un’opera d’arte può notare.

Alla fine della fiera però, in due ore, si è raccontato tutto e non si è raccontato nulla. Trovo curioso come l’affermazione del protagonista, verso la fine del lungometraggio, e cito: “Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito. Dovrei riuscirci io?”, sia l’esatta sintesi del mio giudizio sul film.
Perchè trovo che i dubbi di Gep Gambardella vengano risolti egregiamente dal regista Paolo Sorrentino, che è riuscito nella probabilmente difficile impresa di “girare un film sul nulla”. 


venerdì 18 ottobre 2013

Apoteosi dell'ano: la mostra Ojo del culo ad Oporto

Questa è arte! Questa non lo è. E questa? Questa è arte? Io dico di si. Tu dici di no?
Le affermazioni succitate che sono solite indicare il nostro modo di intendere l’arte e che non di rado si trasformano in domande dettate da dubbi e perplessità, ben riconducono alle mie svirgolettate che trattano la concezione di arte secondo i filosofi Formaggio e Munari ed il sondaggio stolkeriano sulla visione di essa da parte dello studente/lavoratore medio italiano.

E sulla scia delle riflessioni effettuate sul trapasso dell’arte dall’accademismo, tipico diquella moderna, al concetto, tipico della contemporanea, - di cui ottimo esempio è la Fontana di Duchamp - e dei ragionamenti circa la differenza tra arte erotica e pornografia, - il concorso annuale al Kinsey Institute la fa da padrona – capita anche di ritrovarsi tra le mani una mostra di arte contemporanea incentrata sull’ano.

Deve aver pensato, l’artista a me sconosciuto nonostante le ricerche su internet, che se l’arte annovera con i sacrosanti crismi la vagina dell’Origine del Mondo di Coulbert, nonché le 90 scatolette di Merda d’artista di Piero Manzoni, allora può aprire le sue porte anche agli orifizi anali.
Ed è in virtù di ciò che nel 2006, presso la Fondazione Serralves di Oporto, in Portogallo, si è tenuta una mostra interamente incentrata su scatti fotografici aventi per protagonisti ani maschili e femminili; mostra che prese il nome di Ojo del culo. [Trad: Occhio del culo]

La scandalosa mostra non è rimasta in anonimato ma ha avuto effetto virale sui social network, per quanto dopo un periodo di incubazione di ben sette anni: in virtù di ciò, i mass media sono quindi divisi tra chi ritiene l’esposizione autentica come ben visibile dalle foto indicanti il trasporto, l’allestimento e la pulizia degli scatti, e chi la ritiene una bufala, forte del mancato riscontro sul sito della Fondazione Serralves, che però ad onor del vero, riporta solo le esposizioni degli ultimi due anni.

I dettagli delle macrofotografie senza dubbio sono catturati con meticolosità, mostrando non solo la diversità delle cavità naturali dei modelli che hanno posato per l’artista, ma anche il loro sesso – deducibile dalla presenza della peluria - ed il vissuto di questi attraverso la presenza di impercettibili particelle di feci. Particolari che come se facessero parte di un collage tipico di un Rauschenberg, raccontano l’intimità più recondita di ognuno di noi: scattare l’ano del modello è un po’ quindi, come scavare nella sua anima.

Ora, mi chiedo che ne avrebbe pensato Modigliani della mia ultima affermazione, perchè mi rendo conto di aver molto azzardato nell’analisi critica degli scatti della mostra Ojo del culo. Però mettendomi in gioco e considerando il mio lato perverso, curioso, attento, scrutatore e pragmatico – che è un po’ tipico di tutti gli storici dell’arte – preferisco sotto alcuni versi, credere che sia così come ho enunciato, che quella sia la concezione primordiale di un artista che ha voluto in qualche modo difendere l’idea di libertà ed espressione dell’arte.  

Dico che preferisco credere, perchè non posso esulare dal considerare che per quanto sul piano concettuale voglia sforzarmi di dare per veritiera la mia visione, sul piano concreto e reale, sono ben consapevole che agli occhi dei più, quelli mostrati altro non sono che buchi del culo; per cui sto ben attento a non fare il Carlo Giulio Argan con le teste di Modigliani, della situazione, inneggiando alla poesia che si cela dietro fotografie di semplici ani. 

In fondo il mio è stato un modo di sdrammatizzare quella che ai miei occhi è stata una vera e propria commercializzazione dell’arte, che ha poco di poetico e di etico, ma tanto di volgare e mondano.
Perché se come diceva Gertrude Stein “Una rosa, è una rosa, è una rosa”, allora non prendiamoci in giro: un ano è un ano, è un ano. 

giovedì 17 ottobre 2013

Robert Capa, fotoreporter di guerra d'altri tempi

Robert Capa, fotoreporter per Life. 
Dopo le fortunate mostre fotografiche di Robert Doisneau al Palazzo delle Esposizioni e Sebastiao Salgado al Museo dell'Ara Pacis, Roma si riconferma una città attenta all’artisticità della fotografia, aprendo le porte di Palazzo Braschi ad un altro grande esponente in materia, quale Robert Capa.

Pseudonimo di Endre Erno Friedmann, il fotografo ungherese, è infatti uno dei più grandi esponenti della fotografia di denuncia bellica, avendo immortalato nei suoi scatti ben cinque guerre del Novecento: la guerra civile spagnola, quella sino-giapponese, la Seconda Guerra Mondiale, il conflitto arabo-israeliano del 1948 e la prima guerra d’Indocina.
Fu in quest’ultima occasione che Capa trovò la morte, incappando in una mina antiuomo.

R. Capa, The falling soldier, 1936, fotografia. 
È proprio con Capa che nasce la figura del fotogiornalista; celeberrima è la sua foto The falling soldier, scattata nel 1936, nei pressi di Cerro Muriano, un villaggio vicino Cordova, che ritrae un soldato dell'esercito repubblicano nell’esatto momento in cui viene colpito a morte da un proiettile sparato dai franchisti.

Tante nel corso dei decenni le disquisizioni circa l’autenticità della casualità dello scatto, che secondo alcuni studiosi parrebbe non confermarsi innanzitutto da inesattezze storiche – secondo cui appunto, nel paesello di Cerro Muriano non si combatté alcuna battaglia nei giorni indicati da Capa, né l’anarchico protagonista dello scatto parrebbe essere morto in quella circostanza, ma qualche anno dopo, sempre in uno scontro armato, ma mentre era nascosto dietro un albero – ed ancora da una composizione che sembra studiata a tavolino su giochi di linee e di luce.

R. Capa, Troina agosto 1943, fotografia. 
La foto in questione non sarà presente alla mostra di Palazzo Braschi, raccontando questa, nello specifico, la società, la vita, i problemi affrontati dal popolo italiano nei giorni a seguire  l’armistizio del 1943.

La mostra implicitamente vuole onorare infatti il settantesimo anniversario dello sbarco degli Alleati in Sicilia, di cui Capa fu il portavoce dell’evento, diffondendo ai giornali americani le prime foto dell’azione militare.

R. Capa, Troina agosto 1943, fotografia. 
Gli scatti presenti a Palazzo Braschi, sono testimonianze vive di un popolo stremato dalla guerra, ma ciò nonostante ancora vivo e speranzoso, che non si arrende di fronte alle razioni limitate di cibo ed alle macerie causate da bombardamenti, ma combatte la guerra continuando a vivere e a svolgere le normali mansioni giornaliere.

Sono fotografie che presentano una dicotomia spiazzante, quelle che raccontano la Sicilia e le regioni del Sud Italia a partire dal 1943, perché analizzano in parallelo la società e la storia, la prima vista dagli occhi dei popolani, la seconda vista con attraverso l’occhio del soldato straniero; fotografie che per quanto diverse, si incontrano nella fusione di un unico racconto da tramandare ai posteri.

R. Capa, Sicilia estate 1943, fotografia. 
È questa la magia di Capa: il suo modo silente, quieto e discreto di raccontare la storia non da protagonista, ma da spettatore, restando a fianco dei soldati ed amalgamandosi umilmente a loro, e riuscendo però ogni volta, puntualmente, a cogliere lo scatto perfetto. Perché a volte il genio non esula dalla fortuna, per cui diviene importante trovarsi nel posto giusto, al momento giusto, con le persone giuste. E Capa in questo è maestro.

La mostra a Palazzo Braschi, a Roma, si è aperta il 3 ottobre e si concluderà il 6 gennaio; per chi volesse saperne di più, riporto il link del museo che ospita l’esposizione: 

martedì 15 ottobre 2013

La vaporosa e burrosa scultura di Pietro Gurrado

Facendo riferimento alla svirgolettata sulla Chiesa del Purgatorio di Matera, noto con interesse come questa città sia talmente ipnotica, da trascinare chiunque alla contemplazione delle sue bellezze passate e presenti.

E se le bellezze del passato sono riconosciute a livello planetario grazie alla nomina di Patrimonio dell’umanità, concessa dall’Unesco nel 1993, quelle del presente sono riconosciute giorno per giorno dai turisti che possono assaggiare il pane tipico del luogo o godere delle abitazioni scavate nei Sassi Barisano e Caveoso, adibiti oggi a B&B o case - museo.

Bottega d'Arte di Gurrado nel centro di Matera.
Tra le bellezze annoverabili a questo secondo settore, trova spazio l’arte di uno scultore ed artista locale, Pietro Gurrado, la cui bottega espositiva è locata nella centrale Via delle Beccherie.
Già percorrendo la via, diviene impossibile oltrepassare la vetrina che apre alla sala in cui tante statue di diverse dimensioni si dislocano su più piani; una volta entrati, farsi trascinare dalla magia raccontata da quelle figure, diviene cosa inevitabile.

Quasi come se, secondo la teoria michelangiolesca del non finito, le sculture di Gurrado fossero chiuse nel blocco di pietra leccese o tufo materano, dal quale ne escono meravigliose nelle loro morbidissime forme, o plasmate dall’argilla quasi come se l’artista fosse il loro dio creatore, ognuna di esse racconta un mondo di piacere ed armoniosa bellezza, che non riconduce al mondo reale, presente, passato o futuro: esula dal tempo e dallo spazio, sconfinando in dimensioni sognanti ed eteree.

P. Gurrado, Sirena, 2005, Tufo di Matera. 
P. Gurrado, Il dragallo, 2004, legno e terracotta.
P. Gurrado, Scudo ligneo, 2004, legno. 
Morbidezza che riprende le concezioni di fertilità della preistoria e la voluminosità delle curve burrose del medioevo e le unisce alla dolcezza infinita delle rotonde forme boteriane, a creare una nuova figura, schematica nella fisionomia attraverso le linee zigzaganti e definite che solcano i capelli, il viso e le vesta, e sfumata nell’eterno sconfinarsi tra di loro ed incontrarsi delle forme e delle linee che disegnano il rotondo e pieno corpo.

Sono sicuro che Pietro Gurrado, che ad oggi mostra un curriculum invidiabile tra mostre, estemporanee, esposizioni personali e collettive, sia destinato a diventare uno dei più affermati artisti italiani del presente.

Perché in un periodo di crisi, desolazione e angoscia, lui è ancora in grado di creare opere che allontanano ogni triste pensiero, per lasciare spazio a sogni ad occhi aperti.
Per una panoramica dell'artista, consiglio il suo sito internet: 
http://www.pietrogurrado.com/#

P. Gurrado, Il monarca, 2005,
 tufo di Lecce.
 
P. Gurrado, Il pastore
e la tempesta, 2004, terracotta.
P. Gurrado, Giullare, 2004,
Tufo di Lecce. 


lunedì 14 ottobre 2013

Un esempio di Vanitas materana: la Chiesa del Purgatorio in Via Ridola

Panorama di Matera, con il duomo. 
Devo ammettere che girando per Matera durante la mia gita accennata nella svirgolettata su Giovan Carlo Tramontano, diverse realtà mi hanno affascinato e lasciato meravigliato. E se per alcuni versi ero determinato a visitare alcuni monumenti già incontrati sul mio percorso universitario, per altri devo ammettere che è stato gradevole lasciarmi trascinare alla scoperta di edifici religiosi di cui ignoravo l’esistenza, come la Chiesa del Purgatorio, nel Sasso Barisano, in Via Ridola, la stessa a cui si affaccia l’importante Museo Archeologico voluto dall’onorevole Domenico Ridola nei primi anni del Novecento.

Costruita fra il 1725 ed il 1747 con i contributi dei cittadini materani e della Confraternita che la commissionò e le dette il nome, la chiesa presenta una facciata decisamente caratteristica, per lo più convessa, secondo la buona tradizione barocca italiana, strascinata sino al secolo a seguire.
Una tradizione che segue il migliore stile barocco – rococò locale anche all’interno, che da adito a giochi di luce e di linee attraverso le pareti stuccate e dipinte.

Cupola della Chiesa del Purgatorio, 1725 - 1747, Matera.
Queste, che si alzano da una pianta a croce greca, si ultimano in una cupola ottagonale in legno, poggiata su un tamburo circolare con capitelli corinzi. Alla fine dei tre bracci della croce greca, si collocano tre altari, che aprono a dipinti del Settecento: la tela dell’altare maggiore raffigura San Gaetano che intercede per le anime del Purgatorio, presso la Vergine; l'altare di sinistra vede la tela raffigurante San Nicola da Tolentino e le anime purganti, mentre sulla controfacciata si disloca un organo del Settecento con medaglioni dipinti raffiguranti Santi.

Chiesa del Purgatorio, 1725 - 1747, interno, Matera.

Portale della Chiesa del Purgatorio,
XVIII secolo, legno, Matera. 
Anche le decorazioni della facciata e del portale centrale, sono decisamente barocche, per quanto sobrie se rapportate all’interno.
Decorazioni che, però, sono particolari e suggestive, incentrandosi sul tema della morte e della redenzione delle anime. Mentre infatti il portone, diviso in 36 riquadri, presenta riproduzioni lignee di ossa e teschi, – interessante è notare il copricapo di questi, che si diversifica in tiare papali, vescovili e corone, ad indicare come la morte colpisce tutti indifferentemente - nella parte superiore compaiono angeli, e peccatori penitenti avvolti dalle fiamme dell’Inferno, che seguono l’andamento a campana della facciata, al centro della quale trova luogo in una nicchia, la Madonna col Bambino.

Portale della Chiesa del Purgatorio (particolare) , XVIII secolo, legno, Matera. 

Timpano del portale della Chiesa del Purgatorio,
 XVIII secolo, Matera. 
A concludere la forte suggestione della facciata è sicuramente il timpano del portale, chiuso da quattro linee concave e due mensole,  che ospita al centro due scheletri, di cui uno che, tenendo tra le mani la falce, impersonifica la Morte.
Sulla trabeazione dell’elaborato portale, nel fregio, inserito tra tre metope, trova accoglimento l'iscrizione: MISEREMINI MEI / MISEREMINI MEI / SALTEM VOS / AMICI MEI. 
[Pietà di me / Pietà di me / almeno voi / amici miei].

Facciata (part.) Chiesa del Purgatorio, Matera
Lateralmente, due nicchie custodiscono le statue di San Michele Arcangelo a sinistra e dell'Angelo custode a destra, che si alzano su altrettanti portali minori rispetto al centrale, dotati anch’essi di un timpano sotto il quale è collocato un teschio in pietra scolpito a tutto tondo.

Molto sentito quindi il tema della Vanitas, il cui termine deriva dal memento mori  biblico “vanitas vanitatum et omnia vanitas”; un efficace monito all'effimera condizione dell'esistenza.
Uno dei pensieri cardine dell’azione di disciplinamento ad opera dei Gesuiti e dei maggiori ordini religiosi post tridentini, quello della Vanitas, portato avanti da questi, nella speranza che il popolo, attraverso la condanna degli scorretti ed abbietti modi di vivere dell’uomo, si avvicinasse in maniera più fervida e sentita alla Chiesa.

Guercino, Et in Arcadia ego, 1618 - 1622, olio su tela,
Galleria Nazionale d'Arte Antica, Roma. 
Anche, o forse soprattutto, in pittura, la Vanitas si diffuse a macchia d’olio, attraverso composizioni i cui elementi erano un coacervo di simbolismo ed allusioni al tema della caducità della vita.
Quello della fugacità del tempo e dell’ ineluttabilità della morte in effetti è uno dei temi più affrontati dalla società morale e disciplinata del Seicento.

L’associazione della clessidra e del teschio al tempo che fugge inesorabilmente, è ben visibile infatti in diverse opere; spesso a questi elementi segue anche l’iscrizione “Et[iam] in Arcadia Ego” (Anche io in Arcadia), anch’esso un memento mori a ricordare l’onnipresenza della morte nel tempo e nello spazio.

Chiesa del Purgatorio, XVIII secolo, Matera.

domenica 13 ottobre 2013

La storia di Giovan Carlo Tramontano, primo Conte di Matera

Via Riscatto a Matera, a sinistra del duomo. 
Tra le tante simpatiche curiosità storiche che offre la città di Matera, durante la gita effettuata con alcuni amici in un sabato umidissimo di metà ottobre, una di quelle che più mi affascinava visitare era la celeberrima Via del Riscatto, adiacente alla Cattedrale intitolata alla Madonna della Bruna ed a Sant’Eustachio, ancora chiusa per restauri dovuti ad alcuni crolli avvenuti nel 2003. 

Una via che prende il nome dal sentimento provato dai materani, movente dell’omicidio del primo conte che governò Matera, tal Giovan Carlo Tramontano, nato a Sant’Anastasia nel 1450 e morto proprio nella città da lui governata nel 1514; città a cui lasciò in eredità del suo vissuto, il Castello angioino del 1501, con un maschio e due torrette laterali.
Castello Angioino, 1501, Matera. 

Figlio di un banchiere di umili origini, Giovan Carlo è certamente da connotarsi come una figura pioneristica sul piano politico materano, non solo perché in seguito a pressioni e coalizioni riuscì a farsi nominare conte di un territorio che dipendeva direttamente dal re aragonese, ma ancor prima perchè con perseveranza e determinazione riuscì ad ottenere a corte, il ruolo di "mastro regio della zecca napoletana”, che gli permise di partecipare attivamente al Parlamento partenopeo, fino ad allora riservato soltanto alla nobiltà ed al clero.

Panorama di Matera
Ruolo che lo avvicinò al re Ferdinando II d’Aragona, detto Ferrandino, quando, in un improvviso tumulto avvenuto a Napoli tra i sostenitori degli angioini di Carlo VIII e gli aragonesi, questo sostenne a spada tratta la seconda fazione. 

Fu sotto questi auspici che due anni più tardi, Tramontano riuscì a farsi nominare Conte di Matera per ben due volte: la seconda infatti fu nel 1506, quando preso prigioniero in Puglia sulla via di Taranto, perse i diritti sulla contea; diritti che riacquisì con fatica, tentando di supplicare il diffidente Ferrandino, nonostante i regali di alto livello  donati ai regnanti, tra cui una collana di ben 25 perle.

Panorama di Matera con duomo in vista
In qualità quindi di signore di Matera, non gli fu difficile imporre alla cittadinanza tasse e gabelle utili a pagare da un lato l’acquisto dei feudi di Ginosa e di Grifalco, dall’altro il castello, la cui costruzione imponeva un preventivo di 25.000 ducati. Una situazione che piegò in due l’economia del paese, essendo le richieste troppo esose per il reddito medio dei popolani.

Ma quando alle già supplite angherie, il 28 dicembre 1514, Tramontano impose al popolo nuove tasse per far fronte al restante pagamento di 24.000 ducati nei confronti del catalano Paolo Tolosa, utili alla compravendita dei due feudi, i materani persero ogni possibile grado di tolleranza, arrivando a progettare l’omicidio del conte.

A programma fatto, l’imboscata si sarebbe dovuta svolgere all’indomani dell’ultima richiesta,  all'uscita di Tramontano dalla Cattedrale dopo la messa domenicale del vespro. Un luogo ed un momento ragionati a dovere, in virtù del fatto che, secondo le usanze del tempo per cui ogni uomo si recava disarmato alla funzione rituale, sarebbe stato senza dubbio più facile colpire il tiranno.

Via del Riscatto a Matera. 
La sera del 29 dicembre 1514, dopo aver corrotto le guardie mercenarie del nobile, il Conte fu assalito e ucciso in una via laterale del duomo, da uno o più sicari.
Vista la gravità dell’evento, connotabile come attentato alla corona di natura politica, sotto il commissariamento di Giovanni Villani, furono impiccati quattro uomini innocenti e inquisiti altri, che si riuscirono a riscattare pagando nel complesso 2000 ducati.

Ma nonostante il clima di terrore, l’esecutore né i mandanti vennero fuori, anzi il popolo coeso, riuscì a ribaltare la situazione ribellandosi e creando movimenti pericolosi per le strade. La cosa spinse il re a non indagare oltre, ma il comune, accusato di non aver saputo gestire la situazione, fu ammonito con una ammenda di 10.000 ducati, poi commutata in un indulto che finalmente regalò alla città la tanto agognata felicità perduta vent’anni prima.