mercoledì 17 luglio 2013

Integrazione, questa maledetta sconosciuta.

Fatemi essere assurdamente populista per una volta, ma è l'unica valvola di sfogo a tenere a bada una misantropia sempre più provata negli ultimi tempi, stanco di leggere ovunque attacchi al Ministro Cécile Kyenge, stanco di notare l'indignazione nel dover accettare forzatamente la legittimità del suo ruolo: che voi cittadini italiani lo vogliate o meno, il nostro stato è definibile tra le tante, come "multietnico".

E' una realtà evidente che ormai si possa solo parlare relativamente di minoranze etniche; cristiani e musulmani, bianchi e neri, extracomunitari e comunitari si fondono o sono destinati a fondersi ormai sotto il patrocinato - auspicabile - di un coacervo di fattori unificanti nella dicitura "integrazione".

Bisogna integrare per convivere in armonia. Lo abbiamo preteso quando noi italiani emigranti abbiamo solcato le terre di mezza Europa e dell'America del Sud in cerca di lavoro e fortuna; abbiamo parlato le loro lingue, abbiamo sposato i nativi del luogo, abbiamo sfornato prole ibrida ma riconosciuta come nativa anch'essa del luogo che ci ha accolto.
Questa è stata INTEGRAZIONE, ma ce lo siamo dimenticato evidentemente.

Il Ministro dell'Integrazione, Cecile Kyenge
Ora, non mi perdo a ricordarvi che nonostante i tempi di crisi, siamo fortunati ad essere italiani, però vi invito a riflettere sul fatto che nonostante noi siamo coscientemente tranquilli di riuscire a vivere ogni giorno, ciò non toglie che da qualche parte del mondo si patisce la fame, si vive la guerra: chi siamo noi per negare a chiunque altro essere umano il mero diritto a vivere una vita dignitosa?!

Tornando a noi, che lo vogliate o no, l'Italia è ormai avviata ad essere un paese multietnico e in quanto tale deve tutelare ogni razza, ogni etnia, ogni singolo cittadino, perché è simbolo di maturità farlo, è simbolo di cambiamento, di riflessione.

Ricordiamoci infatti, che il Ministero dell'Integrazione, proprio perché tale, non mira a favorire le minoranze anziché gli italiani; ma piuttosto, mira a creare un clima di collaborazione, convivenza e pace tra i popoli nella speranza che le discrepanze, le incomprensioni e la diffidenza, che ancora si vivono in ogni città d'Italia, possano lasciare posto il prima possibile al dialogo.

Concludo con una beffarda e paradossale costatazione: ogni giorno noi pretendiamo radicali cambiamenti, ma poi all'atto pratico, quando siamo chiamati a farlo per davvero, non sappiamo accettare uno dei più radicali che il Governo ha dimostrato di accogliere.

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