mercoledì 24 luglio 2013

LOS INTOCABLES: Erik Ravelo per l'umanità

Erik Ravelo
Probabilmente molti di voi non conosceranno Erik Ravelo, artista cubano contemporaneo che fa delle immagini e degli allestimenti che raccontano in massima l’amore, il suo segno di riconoscimento.
Magari, se vi dicessi che l’artista di cui sto per raccontare è lo stesso che si incaricò di figurare come direttore artistico per la campagna UNHATE della Benetton, probabilmente vi sarà più chiaro capire di chi sto parlando.

UNHATE, è stata una campagna del 2011 che attraverso le immagini dissacratorie ma efficaci e cariche di umanità, ha tentato di sensibilizzare il mondo all’amore tra i popoli: figure di rilievo quale Angela Merkel, Barack Obama e Benedetto XVI, baciano sulle labbra altri esponenti loro antagonisti, come Nicola Sarkozy, Hu Jintao e l’Immam del Cairo, lasciando trasparire un messaggio di speranza e armoniosa convivenza dei popoli, per il momento decisamente utopica.

E. Ravelo, UNHATE (bacio tra Papa Benedetto XVI e
l'Imam del Cairo Mohamed Ahmed ed Tayeb, 2011
Una campagna che senza orma di dubbio ha aperto dietro di sé strascichi di indignazione e sgomento: non solo infatti i rappresentanti illustrati nei manifesti hanno espresso dissenso per quanto esposto, ma addirittura l’evento ha portato anche a dichiarazioni prettamente omofobe, riguardanti soprattutto il fotomontaggio del bacio tra Papa Benedetto XVI e l’Imam del Cairo Mohamed Ahmed el-Tayeb.

Sempre al 2011 è catalogabile la presenza presso il Padiglione Italia della Biennale di Venezia, di una delle 15 opere facenti parte dell’installazione denominata LANASUTRA, successivamente rappresentata negli store di Milano, Monaco e Istanbul.

E. Ravelo, LANASUTRA, 2011, Biennale di Venezia
Il termine LANASUTRA non è casuale: riprendendo il concetto di Kamasutra, (Kama – filo, sutra – che unisce), ne altera la radice, lasciando identico il significato del linguaggio a cui quell’arte ambisce: ognuna delle 15 installazioni infatti ben riconduce al nome, essendo composta da un gruppo scultoreo in gesso, (in cui un uomo e una donna avvolti appunto da fili di lana di colore diverso), che lascia trasudare il concetto di amore come unificatore delle diversità dei popoli.

Oggi Erik Ravelo torna a far parlare di sé con fotografie che abbandonano il messaggio di pace e amore tra i popoli per lasciar posto ad una denuncia morale: LOS INTOCABLES, è una rappresentazione di sette fotografie che raccontano i mali che letteralmente crocifiggono l’infanzia.

Le sette fotografie infatti, rappresentano i sette mali che infieriscono direttamente sui minori di tutti il mondo; una denuncia forte, per certi versi scontata, per altri rivelatoria.
Iconograficamente su ogni fotografia è rappresentata una crocifissione, ma il posto della croce lignea è preso dal male, individuabile nella divisa di ognuno dei sette uomini di spalle, (a non vedere la conseguenza delle sue azioni), mentre al posto del Salvatore, vi è il bene, individuabile nel bambino crocifisso come un Cristo Patient.

E. Ravelo, LOS INTOCABLES, 2013
Un piccolo africano/sud americano dal torso ricucito, crocifisso su un chirurgo che gli ha appena espiantato gli organi, denuncia il mercato nero di organi che proselita migliaia di vittime ogni anno; una bambina araba, crocifissa su un soldato imbragato di elmetto e mitraglia, simboleggia gli orrori della guerra, mai giustificata, sempre ingiusta; un'altra sud asiatica, crocifissa ad un turista munito di fotocamera e camicia hawaiiana, racconta le aberrazioni del turismo sessuale; una piccola americana, nella sua divisa scolastica è crocifissa ad un criminale incappucciato munito di pistola, vittima della pazzia umana che stronca vite a piacimento nei luoghi pubblici.

E ancora un bimbo asiatico grasso, è crocifisso al pagliaccio di Mc Donald’s, denunciando l’alimentazione sbagliata e ricca di grassi dei fast food in genere; un bimbo che ha perduto tutti i capelli è crocifisso ad un uomo in tuta antiradiazioni, vittima dei disastri provocati dalle diverse centrali nucleari; e infine un bimbo ariano - caucasico è crocifisso ad un cardinale, denuncia del sistema corrotto della Chiesa, che protegge preti pedofili.

Ancora una volta Erik Ravelo si è superato, trovando il modo giusto per raccontare al mondo, sette disagi esistenziali: fotografie  nude e crude, ma altamente vere e cariche di umanità; immagini shockanti che senza dubbio sono più efficaci però, di mille parole spese; immagini che inducono a riflettere su quanto di sbagliato l’uomo è riuscito a creare negli ultimi secoli. 

E. Ravelo, LOS INTOCABLES, 2013
E. Ravelo, LOS INTOCABLES, 2013
E. Ravelo, LOS INTOCABLES. 2013
E. Ravelo, LOS INTOCABLES, 2013
E. Ravelo, LOS INTOCABLES, 2013
E. Ravelo, LOS INTOCABLES, 2013


L'arte tra fatturati di mostre e fumettistica: ragionamenti "facebookiani" a riguardo

L’idea mi frullava in testa già da qualche tempo, ma avendo recentemente discusso su due fronti diversi circa la fruibilità dell’arte e quali stili e generi che le appartengono, forse è giunto il tempo di buttar giù due righe a riguardo. Le due domande cardine a cui vorrei arrivare a dar risposta in questo articolo sono inerenti infatti a questi due fattori di non poco conto; sarebbe un passo in avanti senza dubbio, delineare una sorta di pensiero filosofico volto a individuare una volta per tutte, i criteri necessari per definire l’arte democratica anziché elitaria, nonché il suo scopo nella società.

Ma andiamo per gradi.
Una delle due discussioni affrontate, riguardava il fatturato economico di una mostra artistica, rapportato (ovviamente) alla sua fruizione. Nello specifico, la mia amica Fiorella, laureata in Scienze dei beni culturali a Bari, stesso corso di laurea del sottoscritto, risentiva del fatto che si dovesse organizzare una collettiva di arte giapponese, in un paese sperduto e inaccessibile della provincia leccese. A suo dire la scelta era alquanto ardita e inconsueta; far una cosa del genere avrebbe indotto automaticamente a relegare i curatori della mostra quali insani di mente.

La notizia ha scosso piacevolmente i miei neuroni: ricordando che l’anno scorso, mentre ero in vacanza proprio nel basso Salento, avevo assistito ad un concerto di un gruppo della Val di Non, nella piazza di Tiggiano, mi son chiesto come mai tanto sconforto. La mia risposta quindi è stata “Se si vuole, si può fare”. Una risposta non convincente evidentemente perché l’idea di arte di Fiorella discostava dalla mia; a suo parere infatti non avrebbe senso organizzare una mostra se questa poi non fosse fruibile da un gruppo quantitativamente concreto.

Questa motivazione senza dubbio mi ha indotto a riflettere ancora. Dal mio punto di vista infatti, lo scopo di una mostra artistica è quello di educare e formare; se anche solo una persona assisterà alla mostra suddetta, per quanto dislocata nel più anfratto dei territori, allora l'averla allestita saranno stati tempo ed energia ben spesi. Perché il singolo fa numero, sempre se vogliamo ragionare da storici dell’arte, anziché da economisti.

Claudia, creazione di Milo Manara. 
La seconda discussione affrontata, riguardava un quesito posto dal mio amico Leonardo, che postando un’opera di Milo Manara, (disegnatore e fumettista, specializzato in soggetti erotici), induceva a far considerazioni sull’etichettatura di questa quale opera d’arte o meno.

Ora, individuando la specializzazione di Manara, nel fumetto, questo è riconosciuto tecnicamente come “linguaggio costituito da più codici, tra i quali si distinguono principalmente quelli del testo  e dell'immagine, i quali insieme generano la categoria della temporalità"; definito da Hugo Pratt quale “letteratura disegnata” e da Will Eisner, quale “arte sequenziale”.

Quanto detto dai due geni è opinabile ma sicuramente accettabile; d’altronde una cosa non esclude l’altra: il fumetto è connubio di letteratura e arte; forse è proprio arte per il popolo, come ho avuto modo di contestualizzare nell’articolo scritto a quattro mani con l’amico Ottavio, blogger di Breadcrumbs, in cui argomentavo una retrospettiva su Lichtenstein al Tate Modern di Londra.

R. Lichtenstein, That's the way, 1968, pittura su tela,
Kunsthalle, Berna. 
Rispondendo direttamente al quesito, probabilmente la verità, come nella maggior parte delle disquisizioni, sta nel mezzo. "L'arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte", diceva il filosofo Dino Formaggio, per cui il fumetto di Manara sarebbe arte, giusto solo per il fatto che Leonardo ed altri che la pensano come lui l’ha definito tale; "Quando tutto è arte niente è arte" rispondeva però, poi, Bruno Munari, artista designer, smontando i castelli costruiti. 

Dov'è la verità? La verità forse è che questo argomento è così sottile che non si può inquadrarlo in uno schieramento. O almeno non oggettivamente; soggettivamente ognuno di noi può scegliere se relegare al fumetto un'impostazione accademica che lo inquadra come figlio della letteratura, consegnarle un valore artistico secondo l'impostazione democratica "formaggiana" o invece, fare del fumetto, ma dell’arte in genere, una materia estremamente elitaria, secondo lo stampo "munariano".

venerdì 19 luglio 2013

1913 - 2013: due furti a confronto a distanza di un secolo.

P. Picasso, Testa di Arlecchino, 1971,
olio su tela, rubato al Kunsthal, Rotterdam
Leggendo la notizia su diverse testate giornalistiche, ho dato di matto. Insomma, non sapevo se ridere per la beffardaggine di quanto riferito da Londra, o rammaricarmi immensamente lasciando sfogo a quello strascico di misantropia, che in virtù di questa ennesimo fatto di cronaca ha ragione di esistere.

Il fatto è presto detto: nell’ottobre del 2012, sette quadri di valore inestimabile (per quanto siano stati stimati tra i 100 ed i 200 milioni di euro, sul piano storico-artistico non è possibile quantificare la loro importanza) furono rubati in piena notte, dal museo Kunsthal di Rotterdam. Tra i capolavori sottratti configuravano la Testa di Arlecchino di Pablo Picasso, la Donna che legge di Henri Matisse e Waterloo Bridge di Claude Monet, oltre a Donna con gli occhi chiusi di Lucien Freud.

A quasi dieci mesi di distanza, un gruppo di investigatori in Romania è giunto ad individuare nell’abitazione di una donna rumena, Olga Dogaru, la sede in cui sarebbero stati custoditi quei sette dipinti, essendo questa la madre di uno degli incriminati per il furto delle opere. Forte è stato lo sgomento di questi quando durante la perquisizione hanno riscontrato tracce di vernice e lembi di tela, nel forno di casa Dogaru.

H. Matisse, Donna che legge, 1919, olio su tela,
rubato al Kunsthall Museum, Rotterdam
La donna interrogata, ha confermato agli inquirenti la triste verità, ammettendo di aver dato alle fiamme i dipinti per eliminare le prove che potevano incastrare il figlio; gesto che le costerebbe una pena esemplare per crimini contro l’umanità.

Di sicuro non è la prima volta che un museo sia stato soggetto a furti; basti ricordare il caso forse più eclatante, quello che vide come protagonista la Gioconda di Leonardo da Vinci, custodita al Louvre di Parigi.
Il furto della Gioconda (Ritratto di Monna Lisa Gherardini – chiamata Gioconda in quanto moglie di Francesco del Giocondo),  avvenne la notte tra domenica  20 e lunedì 21 agosto  1911.

In quell’occasione, dopo aver accusato Guillaume Apollinaire prima e Pablo Picasso poi, per le loro idee a riguardo dell’arte,  (il primo aveva un movente non indifferente avendo più volte dichiarato che se ne avesse avuto le facoltà avrebbe volentieri distrutto i capolavori di ogni sorta di museo per lasciar posto all'arte nuova), la realtà ripiegò verso altri aspetti meno nobili della rivendicazione artistica.

Il numero de La Domenica del Corriere,
che illustrava l'ipotetico furto de' La Gioconda
Le motivazioni del furto infatti, non erano da ricercarsi in una rivendicazione del senso artistico tipico di Apollinaire, ancor più che di Picasso, quanto nella rivendicazione nazionale del dipinto in questione: Vincenzo Peruggia, ex impiegato del museo, nativo di Luini, era da sempre convinto che la Gioconda fosse stata uno dei tanti trofei requisiti durante le campagne Napoleoniche in Italia e ricondotti in Francia. Per questo l’aveva sottratta dalla teca e l’aveva custodita presso varie pensioni francesi ed italiane sotto al letto e appesa in cucina.

La risoluzione del caso fu dovuta nel 1913, all’antiquario Alfredo Geri ed al direttore degli Uffizi di allora, Giovanni Poggi, solo in parte per loro merito: fu lo stesso Peruggia che contattò l’antiquario per vendergli la Gioconda; il Geri quindi avvisò il Poggi e insieme si recarono al luogo dell’appuntamento per verificarne l’autenticità.

Una vicenda dal retrogusto romantico e nazionalista, (che forse per alcuni versi permise di giustificare il gesto dell’ingenuo patriota italiano), molto lontana da quanto accaduto ai dipinti rubati a Rotterdam. Lontana per il lieto fine del primo caso e per la triste conseguenza del secondo; lontana per la motivazione ideologica e sentita del furto della Gioconda, se paragonata al movente del furto dei sette quadri, prettamente lucroso.
Ma d'altronde, dando ragione a quei nostalgici di epoche mai vissute, allora erano altri tempi. 

Leonardo da Vinci, Monna Lisa, 1503 - 1517,
olio su tavola, Museo del Louvre, Parigi


mercoledì 17 luglio 2013

Integrazione, questa maledetta sconosciuta.

Fatemi essere assurdamente populista per una volta, ma è l'unica valvola di sfogo a tenere a bada una misantropia sempre più provata negli ultimi tempi, stanco di leggere ovunque attacchi al Ministro Cécile Kyenge, stanco di notare l'indignazione nel dover accettare forzatamente la legittimità del suo ruolo: che voi cittadini italiani lo vogliate o meno, il nostro stato è definibile tra le tante, come "multietnico".

E' una realtà evidente che ormai si possa solo parlare relativamente di minoranze etniche; cristiani e musulmani, bianchi e neri, extracomunitari e comunitari si fondono o sono destinati a fondersi ormai sotto il patrocinato - auspicabile - di un coacervo di fattori unificanti nella dicitura "integrazione".

Bisogna integrare per convivere in armonia. Lo abbiamo preteso quando noi italiani emigranti abbiamo solcato le terre di mezza Europa e dell'America del Sud in cerca di lavoro e fortuna; abbiamo parlato le loro lingue, abbiamo sposato i nativi del luogo, abbiamo sfornato prole ibrida ma riconosciuta come nativa anch'essa del luogo che ci ha accolto.
Questa è stata INTEGRAZIONE, ma ce lo siamo dimenticato evidentemente.

Il Ministro dell'Integrazione, Cecile Kyenge
Ora, non mi perdo a ricordarvi che nonostante i tempi di crisi, siamo fortunati ad essere italiani, però vi invito a riflettere sul fatto che nonostante noi siamo coscientemente tranquilli di riuscire a vivere ogni giorno, ciò non toglie che da qualche parte del mondo si patisce la fame, si vive la guerra: chi siamo noi per negare a chiunque altro essere umano il mero diritto a vivere una vita dignitosa?!

Tornando a noi, che lo vogliate o no, l'Italia è ormai avviata ad essere un paese multietnico e in quanto tale deve tutelare ogni razza, ogni etnia, ogni singolo cittadino, perché è simbolo di maturità farlo, è simbolo di cambiamento, di riflessione.

Ricordiamoci infatti, che il Ministero dell'Integrazione, proprio perché tale, non mira a favorire le minoranze anziché gli italiani; ma piuttosto, mira a creare un clima di collaborazione, convivenza e pace tra i popoli nella speranza che le discrepanze, le incomprensioni e la diffidenza, che ancora si vivono in ogni città d'Italia, possano lasciare posto il prima possibile al dialogo.

Concludo con una beffarda e paradossale costatazione: ogni giorno noi pretendiamo radicali cambiamenti, ma poi all'atto pratico, quando siamo chiamati a farlo per davvero, non sappiamo accettare uno dei più radicali che il Governo ha dimostrato di accogliere.

mercoledì 10 luglio 2013

Caravaggio o Spadarino? Disquisizioni sull'attribuzione dell'Angelo Custode nella Chiesa di San Rufo a Rieti

Consultando la mia tesi sul restauro ai dipinti mobili in Italia nei primi due decenni del Novecento, con il mio amico reatino Emanuele, ci siamo soffermati per sua curiosità sul dipinto restaurato nel 1912 da Giuseppe Colarieti Tosti nella Chiesa Parrocchiale allora dedicata ai Santissimi Camillo e Rufo, in seguito modificata a Chiesa di San Rufo (o Ruffo).

La targa che relega a Rieti il titolo di Umbilicus Italiae
Per un accenno generale all’edificio religioso, la chiesa non è da considerarsi una delle tante: questa sorge proprio dove la tradizione narra si trovi il centro d’Italia, “l’umbilicus Italiae” così come riportato da una targa affiancata, che ricorda come il monumento dalla peculiare forma a “caciotta” nella piazzetta che ospita la chiesetta, sia da considerarsi l’ombelico d’Italia.

Ebbene, all’interno di questa chiesa, si trova il dipinto in questione, che ha destato curiosità in entrambi nel leggerne l'attribuzione al Caravaggio. Infatti, dalla relazione dei restauri effettuati dal celebre riparatore, il “Quadro rappresentante l’Angelo Custode – dipinto su tela esistente nella Chiesa di San Ruffo in Rieti, [è] opera d’arte attribuita a Michelangiolo da Caravaggio”

Relazione sul quadro dell'Angelo
Custode che protegge un fanciullo,
attribuito a Caravaggio
L’inconsapevolezza di aver un Caravaggio in città, come asserito da Emanuele, mi ha spinto a fare una ricerca ad hoc sul dipinto. Insomma, è altamente curioso venire a conoscenza di realtà così meravigliose come la custodia di un dipinto attribuibile ad uno degli artisti più stimati e ammirati di tutti i tempi.

Di sicuro questa sorpresa ha portato ad una riflessione di base: quanto conosciamo noi profani di storia dell’arte o studiosi, poco importa, di quanto custodito dal nostro territorio? Proprio qualche settimana fa, giustappunto, ho pubblicato un articolo sulla Madonna dell'Insalata sita nella Chiesa dei Cappuccini a Recanati: una tela attribuita da più specialisti al Caravaggio; un’evidente esempio di piccoli cammei insoliti sparsi qua e là sull’intera area nazionale.

Spadarino (?), Angelo custode
che protegge un fanciullo,
1610 - 1620, olio su tela,
Chiesa di San Rufo a Rieti. 
La tela in analisi, raffigura un Angelo Custode che protegge un fanciullo dalle angherie e tentazioni del Demonio. A primo colpo potrebbe in effetti essere tranquillamente attribuibile al Caravaggio: il gioco di luci e ombre e molto simile alla fase matura del pittore, anche lo studio anatomico rivela parecchie similitudini con i diversi soggetti raffigurati dal genio di Caravaggio.

Studi recenti però attribuiscono il dipinto a Giovanni Antonio Galli, conosciuto con lo pseudonimo Spadarino, uno dei primi caravaggisti che si affacciarono sullo scenario laziale nei primi decenni del Seicento; ipotesi supportata dal confronto con altre opere dello stesso autore e con l’individuazione cronologica del dipinto, da considerarsi all’arco di tempo 1610 – 1620, quando ormai Caravaggio era morto da qualche anno.

Ovviamente non è la prima volta che dipinti caravaggeschi siano oggetto di discussione tra storici dell’arte, in merito di attribuzione, nel corso dell’ultimo secolo: oltre al presente ed al già citato Madonna dell’Insalata di Recanati, che Vittorio Sgarbi tende ad attribuire all’Orbetto, anche la tela de’ I Santi Quattro Coronati , custodito nel Museo di Roma e un tempo collocato sulle pareti della demolita Chiesa di Sant’Andrea in Vincis a Roma, ha visto un ribaltamento circa il suo l’autore, tanto da ricondurlo al Rustichino o allo Spadarino stesso (e in effetti confrontando il dipinto con l’Angelo Custode, entrambe le tele presentano analogie stilistiche e cromatiche evidenti).

Confronto tra i SS. Quattro Coronati, attribuito a Caravaggio e l'Angelo custode con il fanciullo. 

Quanto detto dimostra sicuramente che le attribuzioni stilistiche delle opere sono sempre fortemente opinabili se non supportate da documenti o fonti attendibili. Ad ogni modo, a prescindere dal fatto che la tela sia dello Spadarino o del Caravaggio, vige comunque una certezza: a Rieti si trova un dipinto di notevole valore e bellezza, che andrebbe a prescindere ammirato, valorizzato e tutelato, in quanto esempio perfetto dello strascico caravaggesco nel reatino. 

lunedì 8 luglio 2013

Marina Abramovic e la performance interlocutoria

Premetto che questa svirgolettata proverò a trattarla con le pinze, perché per quanto da storico dell’arte dovrei essere preparato a saper narrare l’aspetto psicofisico della performance, ammetto che le performances di Marina Abramovic non sono tra le più chiare e semplici da effettuare e da raccontare.

Dico questo, perché le sue performances si discostano dal rendere un chiaro messaggio, tipico delle rappresentazioni gestuali degli anni andati, come quella di Acconci o Beuys, o quella di artisti celeberrimi (addirittura premi oscar) dei giorni nostri come Tilda Swinton; l’artista che tratterò ha una sua idea precisa della performance, che si discosta da quella di qualunque altro suo pari.
E in fondo è anche giusto vedere sotto questa prospettiva l’arte: il vero artista è individuo, la sua arte è originale e discostabile da quella dei suoi consimili.

Marina Abramovic
Per chi non conoscesse Marina Abramovic, questa è una performer contemporanea, nata a Belgrado nel 1946, da genitori montenegrini. Come ella ha ammesso in diverse interviste ufficiali, il paese di nascita e la storia circoscritta ad esso ha caratterizzato il suo essere, permettendole di acquisire quella giusta dose di disciplina e freddezza utile alla sua formazione psicologica.

Grande impatto hanno sicuramente avuto i suoi genitori. Nel film documentario che prende il suo nome, diretto da Matthew Akers nel 2012, Marina racconta di una mamma assente, fredda, vuota ma nazionalista. 

Una mamma “partigiana”, legata al suo paese e presente sul lato militante, ma assente sul piano affettivo. Una mamma che le ha negato carezze e baci per non viziarla. Probabilmente è stata questa mancanza di attenzioni che le ha permesso di lavorare su se stessa sino a spingere la sua figura al limite, sino a cercare l’attenzione nella performance, nel grido espresso dal fisico, sino a cercare l'attenzione nell'interlocutore delle sue performance e renderlo performer anche'esso.

La sua performance tipo tende a svelare attraverso la fisicità e la mutilazione, se e quando necessaria, la potenza sottovalutata della psiche e l’attenzione sopravvalutata al dolore fisico. Un chiasmo che va a ledere le convinzioni umane che solitamente fanno prevalere il secondo elemento sul primo: performances come Rhythm 10, del 1973, in cui l’artista eseguiva un atipico rituale con venti coltelli, passandoli tutti, uno alla volta, freneticamente tra le dita finché inevitabilmente non si tagliava. E allora si cambiava coltello e si tentava di non ripetere l’errore già commesso, così da non ripetere lo stesso taglio. E al nuovo taglio, nuovo coltello, sino a usarli tutti per un totale di venti coltelli.

M. Abramovic, Thomas Lips, 1975,
performance, Krinzinger Gallery, Innsbruck
O come Thomas Lips, del 1975, in cui la performer arrivò a mutilarsi il ventre con una lametta disegnandoci su una stella a cinque punte, per poi distendersi su una croce composta di spessi cubi di ghiaccio, mentre un getto d’aria bollente mirato al suo ventre, le faceva sanguinare la ferita.

In quell’occasione la performance aveva duplice valenza: era un rito di purificazione e autopunizione per i peccati commessi (azzardo) dall’umanità e un invito al dialogo con gli spettatori, gli stessi che la trascinarono coercitivamente da quel blocco di ghiaccio che le stava congelando il corpo e che facendo ciò dimostrarono di accettare il suo dialogo.

M. Abramovic, The Artist is Present, 2010, performance,
MoMA, New York

Nominando le restanti sue celeberrime performance, il trittico Freeing The Body, Freeing The Memory, Freeing The Voice (tra il 1975 ed il 1976), Dragon Heads (1990), The Abramovich Method (2012), mi soffermo su una delle più recenti e decisamente interessanti dell’artista: Marina Abramovic – The Artist is Present, una retrospettiva tenutasi al MoMA di New York, dal 1 marzo fino al 31 maggio 2010.

L’allestimento sobrio e scarno – un tavolo ligneo con due sedie frontali, inquadrate in un perimetro delimitato agli angoli da riflettori, lasciava che tutti gli occhi fossi impuntati sull’artista serbo montenegrina, che per 700 ore, (sette giorni su sette, per tre mesi, per sette ore e mezza ogni giorno), restava incollata alla sedia, con gli occhi rivolti verso chiunque si sedesse al suo cospetto.

M. Abramovic, The Artist is Present. 
Nessuna regola scritta; a chiunque era permesso di agire come voleva, ma nel pieno rispetto della persona dell'Abramovic, evitando nudi (una ragazza durante la performance è stata allontanata dopo essersi denudata) e contatti fisici. Marina Abramovic avrebbe accolto chiunque con il suo senso di quiete e serenità, infondendo la sua armonia nell’interlocutore frontale.

E le sfide sono state tante, conteggiando un afflusso di circa 11.000 – 15.000 persone in media al giorno. Molti hanno riso, molti hanno pianto, quasi sollevati da quello sguardo che non giudica e redime. Una sfida continua, che l’artista dall’alto dei suoi (allora) 64 anni ha pienamente vinto, dimostrando e confermando ancora una volta di che pasta è fatta.

L’armonia con il proprio corpo e la propria psiche, l’attitudine a conoscere se stessi, a superare i propri limiti e non arrendersi davanti a nessuna sfida. Questa è la filosofia di Marina Abramovic, questo è il suo insegnamento. Senza dubbio elitario e difficile da imitare, ma decisamente originale; così originale da fare di lei, la più quotata e accreditata esponente della performance art attuale.