venerdì 17 maggio 2013

La tela disgraziata dell'Apparizione di Cristo alla Madre, di Tiziano


Uno degli aspetti più affascinanti dell’arte italiana, è che è senza dubbio possibile ammirare stupendi capolavori dal valore inestimabile, non solo visitando i musei più rinomati della Nazione, come gli Uffizi, la Galleria Borghese o le Pinacoteche sparse da nord a sud, ma anche e semplicemente - ma soprattutto gratuitamente - entrando in una chiesa.

Per una gita itinerante tra le chiese di Roma, custodi di dipinti e statue di pregio artistico, basterebbe infatti ricordare che Santa Maria della Vittoria, a pochi passi da Termini, apre al gruppo scultoreo dell’Estasi di Santa Teresa del Bernini, o che la Cappella Cerasi nella nota Santa Maria del Popolo e la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, mostrano diverse tele, tra le più rinomate del Caravaggio.

Ma l’esposizione incondizionata al grande pubblico di questi delicati e storici lavori, ha un aspetto dicotomico celato dietro un'apparente positiva fruibilità: se da un lato gli aspetti positivi sono così evidenti che sarebbe superfluo elencarli, quelli negativi non sono da sottovalutare; basti ricordare quanto avvenne proprio alle tre tele del Caravaggio negli anni Venti, sotto la Soprintendenza ai Monumenti di Antonio Munoz.

In quest’ottica volta a porre attenzione alla preservazione dei beni ecclesiastici, un caso speciale è quello riguardante la tela dell’Apparizione del Cristo alla Madre del Tiziano, custodito nella Chiesa Parrocchiale di Medole, in provincia di Mantova, nel basso – lombardo.
Infatti anche se lodevole l’idea di poter ammirare il dipinto nella sede originaria per cui era stato ideato, è necessario ripercorrere la storia sfortunata del dipinto, vittima negli ultimi due secoli della razzia e della stupidità umana.

Il quadro, dipinto probabilmente negli anni di piena maturità del Tiziano (in mostra alle Scuderie del Quirinale sino al 16 giugno 2013), verso il 1554, fu  donato dal grande pittore, come segno di riconoscenza per l’ospitalità ricevuta dalla parrocchia.
E qui fu venerata senza intoppi e alcun danno per oltre due secoli e mezzo, sino all’avvento di Napoleone nelle terre lombarde – venete, quando, per evitare che anche questa venisse requisita, fu piegata a metà e nascosta, sino a che non furono ripristinati i governi pre-napoleonici.

Ma il lungo periodo trascorso dalla tela, ripiegata su se stessa, le procurò danni evidentissimi, per cui si ritenne necessario trasportarla a Venezia per un adeguato restauro: nel 1862 il restauratore Paolo Fabris cercò allora di riparare il danno creatosi sulla tela, fissando meglio il colore e ritoccando grossolanamente le parti mancanti.
E ancora, per togliere muffe e rifioriture del colore, usò lavature molto aggressive, che però spelarono la superficie del colore, arrivando a coprire in alcune parti, la trama della tela nonostante lo strato di colore.

Ovviamente, procedendo in modo così grossolano, il problema però non fu attenuato e la parte di sinistra si presentava molto maggiormente danneggiata dell’altra, a causa della lunga permanenza della tela in luogo altamente umido, per cui proprio la parte più danneggiata aveva posato sul versante più umidiccio.

L’empasse drammatico rimase irrisoluto sino al 1911, quando il Sovrintendente di Verona Gugliemo Pacchioni, riprese in mano in caso stilò una relazione sulle condizioni della tela, per cui questa presentava una crepatura verticale del colore che tagliava in due parti precise il quadro, tagliando per intero alcune teste dei serafini e deturpando il volto del Cristo e la sua mano sinistra.

Ovviamente la questione delicata non poteva passare inosservata alla Direzione Generale, che accettò di finanziare i restauri: dopo una prima supervisione del restauratore di grido Luigi Cavenaghi, il restauro fu effettuato da Luigi Betto che, come da prassi, applicò un velo sul supporto, quindi procedette alla foderatura con tela di canapa; poi all’intelaiatura su un nuovo telaio a graticolato. Fatto ciò, rimosse il velo applicato con acqua semplice; fissò le parti sollevate di colore; stuccò a tinta neutra alcune parti inerenti al manto bleu della Madonna; disossidò la vernice su quasi tutta la superficie del dipinto e rimosse le ridipinture.

Successivamente, la tela ormai ritornata quasi del tutto al vecchio splendore, venne esposta per la prima volta nel 1935 a Venezia per la mostra di Tiziano a Ca’ Pesaro, e ancora nel 1974 a Palazzo Ducale di Mantova per la mostra Tesori d’arte nella terra del Gonzaga.

Ma la storia travagliata vissuta sino ad allora non si arresta a questo piccolo aneddotico di piacere:
nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1968 il quadro venne trafugato; e fu ritrovato soltanto il 12 maggio dello stesso anno.
Il furto provocò notevoli danni all'opera, che dovette essere sottoposta a nuovo restauro presso l’Istituto Centrale del Restauro di Roma che lo restituì al paese il 22 settembre 1971.

Tre restauri in cento anni; tre restauri decisivi che hanno irrimediabilmente in qualche modo modificato e cambiato la storia del dipinto tizianesco.
Una storia strettamente legata al luogo in cui è stato conservato, che paradossalmente, dovrebbe essere il simbolo della sicurezza e dell’assenza di peccato e che invece in questa particolare occasione, si è rivelato incolpevolmente come la causa di ogni disgrazia che quel dipinto è stato costretto a subire. 

Tiziano, L'apparizione di Cristo alla Madre, 1552 - 1554, olio su tela, Chiesa Santa Maria, Medole 

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