sabato 4 maggio 2013

La bruttezza nella figura femminile dell'arte


Probabilmente la bruttezza nella storia dell’arte ha indotto a curiosità maggiori rispetto alla resa della bellezza nella sua totalità.
Non è casuale che una composizione come il Canestro di frutta del Caravaggio, avesse goduto nei secoli di immensa fortuna critica: per quanto è tra le primissime opere ad avere come soggetto una mera natura morta, scevra della presenza di paesaggi o figure animali ed umane, parte del suo successo sta nella resa naturalistica e reale di quanto osservato. 

Caravaggio, Canestro di frutta, 1599, olio su tela,
Pinacoteca ambrosiana, Milano.
Ed è così che le foglie mezze brucate e vittime di parassiti, si accartocciano su loro stesse e la frutta è perfettamente vera nelle sue imperfezioni: il buco della mela rossa e gialla, induce ad un nuovo modo di rendere la verità, non più filtrata dagli occhi dell’artista, che fino ad ora ha relegato a quanto osservato un tocco di soggettività tendente alla bellezza, ma nuda è cruda. E in quanto tale quindi, vengono evidenziati non solo gli aspetti belli ma anche quelli brutti di ogni analisi.

Anche il corpo femminile, ritratto, spiato, scorto, è stato spesso reso nella sua bruttezza. Una bruttezza non solo prettamente fisica ma spesso caratteriale e mentale.

Leonardo da Vinci, L'ultima cena (Part.), 1494 - 1498,
affresco, Refettorio S. Maria delle Grazie, Milano. 
Su quest’ultimo punto è importante ricordare infatti che non sempre i lineamenti attribuiti ad una determinata figura di una composizione, soprattutto se storica o mitologica, erano dipinti casualmente; basti pensare che Leonardo per il Giuda de' L’Ultima Cena studiò per mesi la fisiognomica, - quella disciplina pseudo - scientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto, - configurandogli alla fine un mento pronunciato ed un naso aquilino a patata che gli davano un aspetto poco rassicurante.

H. Bosch, Cristo portacroce (part.),
1510 - 1516, olio su tavola,
Museo Voor Schone Kunsten, Gand.
Sull’onda della fisiognomica, sembrerebbe opportuno citare le figure di Bosch, di una bruttezza tendente allo storpio ed al cattivo giusto. Le donne di Bosch, così come gli uomini, del Cristo portacroce, sono ripugnanti, oscene e volgari. Hanno nasi esageratamente pronunciati, denti marci e bocche scarnite, gli occhi quasi fuoriescono dalle orbite e il loro viso è nero, scuro, sporco: l’antitesi della nobiltà d’animo e dell’angelico, contraddistinto dal chiaro del carnato e dalla delicatezza dei lineamenti; un’antitesi ben resa da un’artista legato ai dettami religiosi che non riconosceva la società in cui viveva, intrisa di peccato, goduriosa e tristemente lontana dai precetti della Chiesa, in un periodo di forti contrasti religiosi, scismi e nuovi fondamenti. 

Ma la bruttezza non è solo associabile all’ignoranza, alla malvagità. Un dipinto che non si configura di certo per la bellezza prorompente della raffigurata è quello rappresentante la nobildonna, politica ed erudita, Battista Sforza nel celeberrimo dittico di Piero della Francesca. La duchessa, che sposò Federico da Montefeltro di Urbino, qui viene raffigurata di profilo. E non casualmente. 

Suo marito qualche anno prima era rimasto sfigurato  in una delle innumerevoli sanguinose battaglie sostenute: fu accecato ad un occhio e per questo si fece letteralmente scalpellare il naso per poter avere una visione più ampia, come se avesse ancora l'altro occhio. L’infortunio, fu un duro colpo per lui e per questo motivo impose che in tutti i dipinti comparisse sempre di profilo.

La decisione, che portò ad un nuovo modo di intendere la ritrattistica nella seconda metà del '400, influì senza dubbio sulla resa estetica della coppia: se da un lato lui appare più aggraziato che se ritratto frontalmente (di profilo la parte sfigurata non appare), Battista risulta anonima, mascolina: le incavature degli occhi si notano doppiamente e diventano un punto debole del viso, le labbra assottigliate non hanno modo di imporsi e quel che ne rimane nello spettatore è quasi una voglia di concentrarsi sul paesaggio nello sfondo o sull'abito sfarzoso. 

Una prova di amore incondizionato della donna verso suo marito, disposta a metter da parte la sua bellezza per una resa più scialba, ma che consegnasse al suo uomo la dignità e la fermezza di un uomo del suo calibro. Ma se si paragona il pannello del dittico ad una statua marmorea della stessa, opera di Laurana, qui appare la sua bellezza, elegante e delicata; l’espressione sembra quasi liberatoria, come a voler sospirare al pensiero di aver lasciato di lei una testimonianza volta a ricordarne la bellezza. 

P. della Francesca, Battista Sforza, 1465 - 1472,
olio su tavola, Galleria degli Uffizi, Firenze. 
F. Laurana, Battista Sforza, 1472 - 1475, marmo,
Museo del Bargello, Firenze. 

Soprattutto nell’ultimo secolo, la bruttezza è stata correlabile alla visione realistica piuttosto che simbolica della natura, come detto inizialmente.
La donna del Novecento infatti è una donna che non ha bisogno di inutili orpelli per essere considerata: è una donna conscia di valere; una donna che si affaccia al mondo gridando la necessità di vivere ogni aspetto della società, della politica e del lavoro.
È la Nora di Casa di Bambola di Ibsen, è la Sibilla di Una donna dell’Aleramo; una donna consapevole di valere, che fa del suo cervello la sua collana di perle e della sua intelligenza il suo profumo.

O. Dix, Ritratto della giornalista Sylvia Von Harden,
1926, olio su tela, Centre Pompidou, Parigi.
 
E sotto quest’ottica Il ritratto della girnalista Sylvia Von Harden di Dix, incarna la figura perfetta dell’arrampicatrice, della donna che vuole emanciparsi. In un tubino squadrato, accollato e a maniche lunghe rosso fuoco, che non lascia trasparire sinuosità, seno e sporgenze, la giornalista nel suo atteggiamento arrogante e consapevole, fuma una sigaretta e discorre con chissà chi. Sul tavolo in bella vista il suo pacchetto di sigarette, uno di cerini ed un cocktail, dimostrano un temperamento ribelle ormai acquisito; le gambe flosce, le mani giganti e rugose, la dentatura sporgente ed ingiallita, le rughe, il monocolo e la capigliatura corta (probabilmente facile da pettinare velocemente), rendono di lei l’idea di una donna che lavora con le intuizioni, con il cervello, con la mente, piuttosto che con le tette ed il culo. 

E poi c’è Frida Kahlo. Lei è l’arte brutta terribilmente bella. Lei è la donna che ha fatto capitolare Rivera, Trotskj e Bretòn, nonostante il suo mono - sopracciglio, i suoi baffi e la sua peluria.
Nei suoi autoritratti, Frida rende perfettamente quello che è nella realtà: lei non ha bisogno di nascondere le sue turbe ed i suoi malanni; traslare sulla tela le sue sofferenze, quasi la solleva da questi.
Ama ritrarsi Frida Kahlo, ama rendersi bella ed affascinante nelle sue imperfezioni, nella sua poca cura del suo corpo. Perché in fondo se la bellezza è soggettiva, vien da sé quindi, che lo è anche la bruttezza.    

F. Kahlo, Autoritratto con treccia, 1941, olio su masonite,
The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art, Cuernavaca.
 

Post correlati:










2 commenti:

  1. Ottima analisi! Ho apprezzato molto la cultura esposta sul duca di Montefeltro e la chiusa finale su Frida Kahlo. Sono solo un appassionato, ma i nostri pareri si equivalgono.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie della considerazione e della stima Leo. E' sempre un piacere ricevere feedback positivi ed entusiasmanti quale il tuo su questo articolo.

      Elimina