venerdì 31 maggio 2013

Franca Rame e Mariangela Melato: l'Italia bella, che se ne va.

Questo 2013 si sta rivelando un anno rapitore.
Già l’11 gennaio è venuta a mancare probabilmente l’attrice italiana più brava, talentuosa e formidabile di tutti i tempi, Mariangela Melato, stroncata da un tumore al pancreas. Tutti la ricordiamo per il fortunato film diretto da Lina Wertmuller nel 1974, al fianco di Giancarlo Giannini in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto.

Lei, Raffaella Pavone Lanzetti, era un’aristocratica arrogante e spocchiosa, legata alla ricchezza ed ai soldi, viatico per una vita di comodità e potere; lui, Gennarino Carunchio, un convinto comunista, costretto a servire i signori. Quando il gommone sul quale i due, imbarcati per una gita, presentando problemi al motore, li costringe a sostare su un isola deserta, capitalismo e comunismo capitoleranno nell’amore, fino a creare un’inversione di ruoli: la padrona, da lui definita “Buttana industriale e socialdemocratica”, diventerà  la sua geisha per il tempo passato insieme, e il servo si eleverà al rango di padrone.  

Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, in una scena di Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto

Ora, quattro mesi più tardi da quella sciagura artistica, alla Medea dei teatri italiani è seguita un altro talento italiano di quelli da ricordare per sempre, Franca Rame, stroncata da un ictus: morte miserabile di una donna artisticamente immortale.

Franca Rame
Il suo nome, come è giusto che sia, è strettamente legato al suo formidabile estro artistico teatrale di derivazione familiare (era figlia d’arte), per quanto sul lato umano, le è riconoscibile un concreto attivismo di stampo femminile soprattutto negli anni a cavallo tra il 1968 ed il 1971: gli anni della rivoluzione culturale italiana: fu proprio in questo periodo di fervore artistico e politico che i suoi due impegni si unirono su un unico fronte: in questi anni partorì testi teatrali di grande spessore dal retrogusto tipicamente femminista.

Questo suo modo di fare probabilmente, fu la causa per cui, il 9 marzo 1973, Franca Rame fu costretta da cinque uomini appartenenti all'allora estrema destra, a salire su un furgoncino nel quale  fu poi stuprata a turno dagli stessi, in modo abominevole e barbaramente malmenata e seviziata.
Come la giustizia italiana (?) insegna, dati i numerosi rinvii ed il lungo processo burocratico delle pratiche, il procedimento penale si concluse nel febbraio 1998, con una infamante prescrizione del reato: nessun colpevole, nessuna condanna. Solo gli archivi.

Un caso avvenuto quarant’anni fa, risolto (o meglio, non risolto) quindici anni fa, ma che è riaffiorato, ad un giorno dalla morte della nota scrittrice ed attrice,  attraverso un gesto nudo e crudo, volgare, infame, lercio e squallido, su un muretto esterno del Liceo Mamiani di Roma, che citava: “FRANCA RAME HA GODUTO AD ESSERE STUPRATA”.

Avrei da ridire molto sul gesto - con termini riassuntivi l’ho già definito per quello che è - ma per quanto se ne sia detto, per quanto molti giornali hanno riportato già la dichiarazione di Jacopo Fo, figlio di Franca e Dario, premio Nobel per la letteratura nel 1997, non posso desumermi dal riportarla anche io. 
Quello che segue è il pensiero di un figlio indignato e ferito; un pensiero chiaramente frutto del figlio di suo padre e di sua madre per l’uso elegante, sferzante e incisivo del suo modo di esprimersi:

“Chi ha scritto questa frase evidentemente non ha idea di molte cose. Mia madre fu ustionata con le sigarette accese e tagliata con le lamette. La perizia medica misurò tra l’altro una ferita lunga quasi 30 centimetri. Poi fu violentata dai componenti del commando fascista che l’aveva sequestrata armi alla mano. L’aggressione fu talmente disumana che perfino uno dei membri del commando, disgustato, chiese agli altri di smetterla e ricevette per questo un ceffone che lo riportò all’ordine. Ora io mi chiedo che idea del sesso abbia uno che è convinto che una donna possa godere ad essere violentata. E mi chiedo che piacere sessuale possano trarre le donne che si accoppiano con questo individuo.
E mi chiedo di che dimensioni sia il deserto interiore di questo maschio rampante, e quanta paura debba avere di non essere all’altezza di un vero incontro d’amore e di passione. Forse se entrasse nelle scuole una buona educazione al sesso e ai sentimenti questo vuoto esistenziale potrebbe essere colmato nelle generazioni future… La malattia dell’Italia non è solo politica, è morale, filosofica e sentimentale. Molti non sanno neppure cosa siano i sentimenti. Vivono tenendo carcerate le loro emozioni…” (Jacopo Fo)

Per quel che mi riguarda, il mio pensiero è chiaro e ho voluto dedicarlo alle due donne che ho tanto ammirato. 
Tutti scrivono coccodrilli intrisi di dolcezza, tristezza e malinconia dopo la morte di un grande artista o personaggio, soprattutto sui social network, che permette di linkare video, immagini, testi e quant’altro. Il mio coccodrillo per Franca Rame è questo:

Persino il tuo cognome era rosso. 
Meglio per te che ci hai mollato; non meritavi di continuare a militare in questo stato di truffatori e truffaldini, in questo luogo di accordi, strette di mano ed occhiolini. 
Non ti curar di chi ti ha offeso, la tua dignità ha sputato loro in faccia. 
Quindi raggiungi pure il palco delle dive immortali, che te lo sei meritato!

Ps: Giacché sei lassù, salutami la mia amata Mariangela. Che basta fare il suo nome per riempirti la bocca senza dover poi aggiungere altro.


sabato 25 maggio 2013

La Madonna dell'Insalata di Recanati: Caravaggio o non Caravaggio?

Degli artisti più celeberrimi della storia dell’arte, non sempre è possibile delineare una precisa e sicura cronologia del loro operato: molto spesso accade che venga ripresa in considerazione un’opera d’arte snobbata o semplicemente non conosciuta, diroccata in qualche chiesa periferica o palazzo privato, che venendo attribuita all’artista per stile più vicino, finisce addirittura per svelare un lato poco conosciuto di questo.

Ricordo a tal proposito le tele del Tintoretto e del Veronese site presso la Pinacoteca Provinciale di Bari, protagoniste dei restauri del 1914-15 e del 2010, che testimoniano una meravigliosa collaborazione non solo commerciale ma anche artistica tra il Veneto e la Puglia, o il dipinto dei SS. Quattro Coronati un tempo sito nell’ormai demolita Sant’Andrea in Vincis, attribuito non a caso per qualche tempo al Caravaggio.

E a proposito del Caravaggio, contestualizzandolo alla premessa fatta, diviene importante analizzare e screditare per quanto ci è possibile, l’alone di mistero che aleggia intorno ad un dipinto attribuito a questo sin dal lontano 1916, che io, semplicemente perché ingordo della sua arte, voglio credere suo: La fuga in Egitto, altrimenti detta la Madonna dell’insalata, custodita presso la Chiesa dei Cappuccini di Recanati.

Già, Recanati, il paese protetto dai Conti Leopardi, il cui massimo esponente, Giacomo, è tra i padri fondatori della letteratura moderna che fa capo al XIX secolo, pare abbia ospitato anche Caravaggio, che qui, potrebbe aver lasciato una sua opera.

La storia dell’attribuzione del dipinto a Caravaggio inizia quasi un secolo fa, quando il recanatese Patrizi, studioso di criminologia, si occupò più volte della figura del Caravaggio, affascinato da quell’evento che lo vide protagonista della morte di Ranuccio Tommasoni.
In visione di ciò, il Patrizi, si imbatté casualmente, il 25 luglio del 1912, (un periodo ricordiamolo, in cui l’interesse per l’arte correlato alla riscoperta del patrimonio artistico, era all’apice), in un dipinto presente nella chiesa dei Cappuccini del suo paese.

E analizzando il colore, i soggetti, la resa pittorica e volgendo uno sguardo d’insieme a quella che era stata la vita del pittore per eccellenza, in un articolo del 1916 si decise ad attribuire quest’opera a Caravaggio, definendola un Riposo nella fuga in Egitto. E poiché la sacra Famiglia è intenta a preparare una cena improvvisata con della verdura selvatica, denominò il dipinto “Madonna dell’insalata”.

Tenete ben a mente questa denominazione, perché ci ritornerò più tardi.
Continuando il nostro percorso, l’opera subì vari restauri: nel 1916, a poche settimane dall’articolo, il dipinto fu restaurato in qualità di “opera del Caravaggio” (il che attesta una convinzione del sopraintendente delle Gallerie delle Marche ad accettare l’attribuzione) dal restauratore De Bacci Venuti, che fermò il colore risollevato, evitando che questo cadesse; nuovamente nel 2008, così da rimuovere le vecchie vernici, ossidate nel secolo corrente.

Questo, ha permesso che la tela acquisisse maggiore leggibilità e luminosità, per cui ghiotta si è resa l’occasione di avviare una più approfondita indagine storico archivistica, che ha permesso di appurare che il dipinto è presente nella chiesa del convento dei Cappuccini di Recanati a partire dalla fine dell’Ottocento.

Ora, converrete che se il dipinto è del XVII secolo, per ben due secoli è stato sito necessariamente presso un altro edificio, per cui si è tentato di individuare la chiesa o il palazzo di provenienza dell’opera. E a tal punto, il professor Bartolozzi, storico dell’arte che tenta di vedere nella Madonna dell’Insalata un’opera dell’artista lombardo, ha avanzato una ipotesi di degno spessore che potrebbe individuare l’ignota provenienza.

Pare che al Caravaggio fu commissionata fra la fine del 1603 e gli inizi del 1604, la pala d’altare da collocare nel Convento dei Cappuccini di Tolentino e così fu fatto; documenti certi lo attestano.
Adesso sopraggiunge la tesi del professor Bartolozzi: a suo dire è da ritenersi possibile che il dipinto, dopo la soppressione del convento di Tolentino avvenuta nel 1866, sia passato a quello di Recanati, in sostituzione della pala del Calcagni defraudata proprio nel 1866 nella cappella di San Giuseppe, dove appunto fu collocato il Caravaggio o presunto tale.

Ebbene a questo punto, ricordate che vi avevo chiesto di tener a mente la denominazione ufficiosa del dipinto? Bene, da una relazione del giugno 1916, del Soprintendente alle Gallerie del Lazio e degli Abruzzi, Federico Hermanin, in cui riferisce alla Direzione Generale per le Antichità e Belle Arti lo stato del dipinto, si evince una curiosità che non è affatto irrilevante.

A detta dell’Hermanin, i cespi d’insalata porti dalla Vergine al Bambino, che poi li lava nel catino, potrebbero rivelare un’allusione furbesca a Monsignor Pucci di Recanati, un cardinale presso il quale il Caravaggio aveva dimorato durante i miserevoli anni del suo soggiorno a Roma: proprio questo cardinale, veniva chiamato dal Caravaggio “Monsignor Insalata”, a causa della natura del cibo troppo frugale che il prelato gli somministrava.

Beh però se l’allusione fosse da prendere come valida, allora il dipinto apparterrebbe agli inizi della carriera del Caravaggio e non potrebbe essere la pala di Tolentino del 1603, che possiamo addurre appartenere al periodo maturo; inoltre la provenienza sarebbe da individuarsi nella corte pontificia romana e non nella periferia marchigiana, anche se in effetti, essendo Monsignor Pucci originario di Recanati, potrebbe avergli commissionato la pala per inviarla al paese natio. Non posso esprimermi, non ho prove certe per potermi schierare da questa o da quell’altra parte.

Certo è, che tutti gli indizi parrebbero confermare il dipinto al Caravaggio. E pure la critica è d’accordo in questo, quasi all’unanimità: in pieno contrasto con la teoria del prof. Bartolozzi, il noto storico dell’arte Vittorio Sgarbi è convinto infatti che la pala sia da attribuirsi ad Alessandro Turchi, conosciuto come l’Orbetto.

Per cui alla visione di quanto detto, sorrido all’idea che qualcuno come Sgarbi debba per forza andare controcorrente anche lì dove c’è l’evidenza. È nella natura dello storico dell’arte dire la sua: per qualcuno vige addirittura la regola “giusto o sbagliato purché se ne parli”.
Una visione opinabile, certo, che non vuole intaccare assolutamente la professionalità dell’emerito, ma spinge senza dubbi a considerare come valida l’idea che, nel caso suddetto, quanto affermato dallo storico dell’arte e politico si debba necessariamente vedere come una mezza castroneria. 

PS: Perdonatemi per l'immagine, non ne ho trovate di migliori.

Caravaggio (?), Madonna dell'Insalata, 1595 - 1620 (?),  olio su tela, 
Chiesa dei Cappuccini, Recanati. 

lunedì 20 maggio 2013

L'arte pornografica del Kinsey Institute


Quando mi son cimentato nell’articolo sull'angelico, il sensuale ed il bello nella figura femminile dell'arte, conscio del fatto che la rete potesse suggerirmi dipinti correlabili all’idea di sensuale, provocante ed erotico che avevo ben in mente, mi son affidato alla ricerca su internet, sperando in risultati soddisfacenti.

Ebbene, tra le immagini che hanno destato immediatamente in me forte curiosità, vi erano alcune fotografie, dipinti ed allestimenti che riconducevano ad una visione decisamente pornografica del soggetto trattato, per cui fu lecito chiedermi quali fossero i criteri di giudizio per cui un’opera era da giudicarsi innanzitutto tale ed in secondo luogo volgare o artisticamente provocante.

In fondo anche la performance di Vito Acconci del 1972 fu giudicata artistica: in quel caso l’atto masturbatorio si insigniva di messaggi benefici e profondi per cui l’azione era da ritenersi meramente una metafora carnale e materiale di un pensiero filosoficamente aulico.

Conscio di questo e rafforzato dalla curiosità e dalla perversione che in qualche modo devono pungere uno storico dell’arte che voglia occuparsi non solo di Pinturicchio e Rosso Fiorentino ma anche di Schiele, Acconci o Klimt, ho cliccato su quelle immagini per poter esplorare la pagina di riferimento, che mi ha condotto alla homepage di un istituto sui generis: il Kinsey Institute.   

Questo Istituto, sito presso l'Indiana University, fu fondato  oltre sessant’anni fa, nel 1947, al fine di indagare, diffondere e sensibilizzare la gente alla cultura del sesso e della riproduzione attraverso saggi e disquisizioni critiche: proprio dal  Dottor Alfred C. Kinsey, pioniere della ricerca improntata alla sessualità negli anni Quaranta ed autore, nel 1948 appunto, del libro “Sexual Behavior in the Human Male” [Il comportamento sessuale nel maschio umano] prende il nome l’Istituto, che dal 2006 ha aperto le porte ad un concorso di arte il cui tema appunto è puntualmente l’erotismo.

Il primo Kinsey Institute Juried Art Show – questo è il titolo della competizione artistica - si è tenuto nel 2006 nella Galleria dell'Istituto ospitante. La sua fama però, ha portato dopo tre anni ad uno stato gratificante, se visto da un lato prettamente ideologico, preoccupante se rapportato alla necessità di aprire la mostra a chiunque volesse parteciparvi: nel 2009, si ovviò a questa problematica, utilizzando non più solo lo spazio disponibile nella Morrison Hall, ma adibendo alcune sale nell’ Indiana University of Fine Arts Gallery.

Questo luogo, che da allora prende il nome di Galleria d'Arte Grunwald, ad oggi continua ad ospitare il Kinsey Institute Juried Art Show, che si svolge per alcuni mesi a cavallo tra primavera ed estate, ogni anno. Anche quest’anno la competizione ha aperto i battenti alla fantasia ed alla creatività di persone comuni ed artisti; l’inaugurazione della gallery è avvenuta il 17 maggio ed è ben visibile su questo link: 

Dando un’occhiata furtiva alle opere esposte quest’anno e comparandole alle opere degli anni scorsi, son chiare due cose, una direttamente proporzionale alla competizione, una facente parte di un discorso più generico: innanzitutto per quanto la competizione possa definirsi artistica, i partecipanti son tutt’altro che artisti.

Fare una foto non vuol dire essere artisti, a meno che non si tenti di catturare in quell’istantanea, l’anima bella o brutta, genuina o maliziosa, pervertita o ingenua di un soggetto. Trasformare la perversione in eros è diverso dal trasformare l’eros in perversione; la seconda cosa è traducibile in pornografia, la prima in misticismo e sensualità, ed il passaggio è labile, ma stranamente nella seconda son bravi tutti. Ma questo non significa ammettere implicitamente che tutti i partecipanti non abbiano creato delle opere degne di nota; alcuni disegni, alcune statue, alcune performance sono davvero lodevoli e toccano il lato sensuale della competizione anziché quello pornografico.

In secondo luogo, le opere di quest’anno, devo ammettere sono meno volgari di quelle degli anni scorsi; nella galleria del 2011  ricordo Sailor, una fotografia di Lionel Biron, raffigurante un marinaio con erezione in vista, che di artistico e sensuale e provocante non ha nulla, ma di volgare ed insulso, fin troppo,  (cliccando qui potrete vedere la fotografia Sailor, V.M.); nella galleria del 2010, Day One, riproduzione poco originale – forse perché fin troppo fedele – della vagina, smussa, ruvida, sfuocata (Day One V.M.) o nella galleria del 2009, Odalisque Mr. America, una sempliciotta fotografia di un uomo muscoloso e peloso in posa su un divano, senza fama e senza lode, senza giochi di luce o particolari tecniche  (Odalisque Mr America V.M.) e B + K, un orgasmo femminile dato da un cunnilungus come ce ne sono tanti, come se ne trovano sui siti porno (B + K).

Con questo non posso esulare dall’ammettere che alcune opere sono addirittura sublimi. Personalmente ho trovato elegantissime e fortemente connotate da una eccezionale carica erotica l’ opera American Adam & Ever Study #8: The Map is Not The Territory Series, di Chester Burton, nella galleria di quest’anno, che rappresenta l’amore bello e scevro da scandali, pregiudizi e omofobia, relegando ai soggetti espressioni di desiderio e peccato, (American Adam & Ever Study #8) ed il dipinto Striptych  - Strip Triptych, di Colin Poole, la cui donna esprime nel suo sguardo la consapevolezza del suo essere perfetta e l’arroganza di sapere che può essere l’oggetto del desiderio della mente anche più incorruttibile. (Striptych)

venerdì 17 maggio 2013

La tela disgraziata dell'Apparizione di Cristo alla Madre, di Tiziano


Uno degli aspetti più affascinanti dell’arte italiana, è che è senza dubbio possibile ammirare stupendi capolavori dal valore inestimabile, non solo visitando i musei più rinomati della Nazione, come gli Uffizi, la Galleria Borghese o le Pinacoteche sparse da nord a sud, ma anche e semplicemente - ma soprattutto gratuitamente - entrando in una chiesa.

Per una gita itinerante tra le chiese di Roma, custodi di dipinti e statue di pregio artistico, basterebbe infatti ricordare che Santa Maria della Vittoria, a pochi passi da Termini, apre al gruppo scultoreo dell’Estasi di Santa Teresa del Bernini, o che la Cappella Cerasi nella nota Santa Maria del Popolo e la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, mostrano diverse tele, tra le più rinomate del Caravaggio.

Ma l’esposizione incondizionata al grande pubblico di questi delicati e storici lavori, ha un aspetto dicotomico celato dietro un'apparente positiva fruibilità: se da un lato gli aspetti positivi sono così evidenti che sarebbe superfluo elencarli, quelli negativi non sono da sottovalutare; basti ricordare quanto avvenne proprio alle tre tele del Caravaggio negli anni Venti, sotto la Soprintendenza ai Monumenti di Antonio Munoz.

In quest’ottica volta a porre attenzione alla preservazione dei beni ecclesiastici, un caso speciale è quello riguardante la tela dell’Apparizione del Cristo alla Madre del Tiziano, custodito nella Chiesa Parrocchiale di Medole, in provincia di Mantova, nel basso – lombardo.
Infatti anche se lodevole l’idea di poter ammirare il dipinto nella sede originaria per cui era stato ideato, è necessario ripercorrere la storia sfortunata del dipinto, vittima negli ultimi due secoli della razzia e della stupidità umana.

Il quadro, dipinto probabilmente negli anni di piena maturità del Tiziano (in mostra alle Scuderie del Quirinale sino al 16 giugno 2013), verso il 1554, fu  donato dal grande pittore, come segno di riconoscenza per l’ospitalità ricevuta dalla parrocchia.
E qui fu venerata senza intoppi e alcun danno per oltre due secoli e mezzo, sino all’avvento di Napoleone nelle terre lombarde – venete, quando, per evitare che anche questa venisse requisita, fu piegata a metà e nascosta, sino a che non furono ripristinati i governi pre-napoleonici.

Ma il lungo periodo trascorso dalla tela, ripiegata su se stessa, le procurò danni evidentissimi, per cui si ritenne necessario trasportarla a Venezia per un adeguato restauro: nel 1862 il restauratore Paolo Fabris cercò allora di riparare il danno creatosi sulla tela, fissando meglio il colore e ritoccando grossolanamente le parti mancanti.
E ancora, per togliere muffe e rifioriture del colore, usò lavature molto aggressive, che però spelarono la superficie del colore, arrivando a coprire in alcune parti, la trama della tela nonostante lo strato di colore.

Ovviamente, procedendo in modo così grossolano, il problema però non fu attenuato e la parte di sinistra si presentava molto maggiormente danneggiata dell’altra, a causa della lunga permanenza della tela in luogo altamente umido, per cui proprio la parte più danneggiata aveva posato sul versante più umidiccio.

L’empasse drammatico rimase irrisoluto sino al 1911, quando il Sovrintendente di Verona Gugliemo Pacchioni, riprese in mano in caso stilò una relazione sulle condizioni della tela, per cui questa presentava una crepatura verticale del colore che tagliava in due parti precise il quadro, tagliando per intero alcune teste dei serafini e deturpando il volto del Cristo e la sua mano sinistra.

Ovviamente la questione delicata non poteva passare inosservata alla Direzione Generale, che accettò di finanziare i restauri: dopo una prima supervisione del restauratore di grido Luigi Cavenaghi, il restauro fu effettuato da Luigi Betto che, come da prassi, applicò un velo sul supporto, quindi procedette alla foderatura con tela di canapa; poi all’intelaiatura su un nuovo telaio a graticolato. Fatto ciò, rimosse il velo applicato con acqua semplice; fissò le parti sollevate di colore; stuccò a tinta neutra alcune parti inerenti al manto bleu della Madonna; disossidò la vernice su quasi tutta la superficie del dipinto e rimosse le ridipinture.

Successivamente, la tela ormai ritornata quasi del tutto al vecchio splendore, venne esposta per la prima volta nel 1935 a Venezia per la mostra di Tiziano a Ca’ Pesaro, e ancora nel 1974 a Palazzo Ducale di Mantova per la mostra Tesori d’arte nella terra del Gonzaga.

Ma la storia travagliata vissuta sino ad allora non si arresta a questo piccolo aneddotico di piacere:
nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1968 il quadro venne trafugato; e fu ritrovato soltanto il 12 maggio dello stesso anno.
Il furto provocò notevoli danni all'opera, che dovette essere sottoposta a nuovo restauro presso l’Istituto Centrale del Restauro di Roma che lo restituì al paese il 22 settembre 1971.

Tre restauri in cento anni; tre restauri decisivi che hanno irrimediabilmente in qualche modo modificato e cambiato la storia del dipinto tizianesco.
Una storia strettamente legata al luogo in cui è stato conservato, che paradossalmente, dovrebbe essere il simbolo della sicurezza e dell’assenza di peccato e che invece in questa particolare occasione, si è rivelato incolpevolmente come la causa di ogni disgrazia che quel dipinto è stato costretto a subire. 

Tiziano, L'apparizione di Cristo alla Madre, 1552 - 1554, olio su tela, Chiesa Santa Maria, Medole 

mercoledì 15 maggio 2013

Il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Pigorini


Tra i musei che a Roma sono una vera e propria istituzione, configura il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Pigorini, che prende il suo nome dal Paletnologo parmense Luigi Pigorini, che con cura meticolosa e forte determinazione, riuscì ad inaugurare il tanto voluto Istituto in un’ala del Palazzo del Collegio Romano dei Gesuiti, sino al 1962.

Busto di Luigi Pigorini, custodito nel
Museo Preistorico Etnografico
A seguire il museo fu trasferito nella sede attuale, un edificio progettato dagli Architetti Piacentini e Brasini nel 1939 nel quartiere Eur, per l’Esposizione Universale di Roma del 1942, subendo un riordinamento che rispettava però la divisione tra Paletnologia ed Etnografia.

Visitando il museo, non è difficile capire perché questo venga visitato abitualmente dalle scuole elementari e dalle scuole medie inferiori della provincia di Roma: in effetti, per quanto riguarda l’etnografia, le collezioni racchiuse nella struttura ben si prestano ad un racconto fedele e simbolico delle più diverse civiltà e tribù internazionali, ponendo analogie e differenze tra gli usi e i costumi dei popoli tra loro più lontani, mentre in ambito preistorico, una nutrita raccolta di testimonianze conduce ad una ricostruzione molto fedele di quanto accaduto per millenni.

Salendo su per le scale che conducono alle sale etnografiche e preistoriche, il salone accoglie gli spettatori con una mostra molto ridotta ma significativa dell’attività sanitaria nei paesi africani da inizio secolo in poi, attraverso i primi rudimentali strumenti di medicina, come pompe pneumotoraciche e siringhe a tre anelli; ancora, a metà salita, si apre un atrio che custodisce due vetrine frontali al cui interno sono depositati vasi e suppellettili derivanti dalle regioni meridionali d’Italia.

Una volta giunti al piano superiore, sul quale si esplica il vero e proprio museo, due corridoi portano a quattro diverse ali del palazzo; contenenti una i reperti provenienti da Africa e Oceania, una i reperti provenienti dall’America centrale e Meridionale, una l’intera collezione zooarcheometrica e preistorica e l’ultima il piccolo museo “(S)oggetti di immigrazione”.

Statua di Guerriero, Sezione Africa, nel
Museo Preistorico Etnografico, Roma
Molto genericamente, - andare nel dettaglio sarebbe impossibile data l’infinità delle testimonianze custodite nelle vetrine – la Sezione Africana apre ad una visione molto contemporanea volta a raccontare quanto ha influito la cultura dei popoli abitanti il continente nero, raccogliendo all’interna di numerate vetrine, collane, bracciali e vestiario dal design e dai colori tipici.

Superato l’affascinante step, ci si inoltra nella vera e propria collezione etnografica, che raccoglie in ordine, sculture e feticci tipici dell’arte negra, statue dense di mistero e sacralità, nei loro volti dipinti e spesso timorosi e nelle loro raffigurazioni antropologicamente destabilizzanti; i simboli delle autorità delle diverse tribù: scettri ed armi dei guru, dei grandi saggi e dei capi-tribù; statuaria funebre e  raffigurante la maternità; maschere utilizzate in battaglia e durante riti sacri e propiziatori.

Degna di nota è senza dubbio la sezione riguardante i rapporti delle civiltà europee con le tribù ed i popoli africani nel periodo colonialista e post; una vasta raccolta di suppellettili descrive con minuzia i rapporti diplomatici tra Menelik e Vittorio Emanuele III e il processo di cristianizzazione dell’Africa.

Maschere di guerrieri, nella Sezione Oceania, nel Museo
Preistorico Etnografico, Roma. 
Sulla stessa scia, la Sezione dedicata all’Oceania si racconta attraverso maschere, feticci, armi e  scudi degli aborigeni, prestando particolare rilevanza alla navigazione: nel centro della sala principale dell’ala, prendono luogo piroghe e barche usate dagli indigeni del luogo per raggiungere le diverse isole degli arcipelaghi del continente.

Sul versante frontale a quello che ospita le due sezioni dell’Africa e dell’Oceania, si apre la Sezione riguardante l’America Centrale e Meridionale. Ad aprire la sezione, l’idolo Zemi, spirito ancestrale che protegge i guerrieri della tribù Taìno, dimoranti un tempo nelle Antille, capeggia al centro della sala, introducendo lo spettatore al corridoio contiguo.

Zemi, lo spirito ancestrale della
tribù dei Taino, Museo
Preistorico Etnografico, Roma
Senza sosta, il lungo corridoio zigzagante ospita suppellettili, maschere, idoli e feticci delle tribù centroamericane e sudamericane, come gli Zapotechi, i Maya, gli Aztechi e gli Inca. In ogni vetrina vengono analizzati diversi aspetti della vita sociale di queste tribù, come la pratica del sacrificio e dell’autosacrificio dei regnanti in onore delle divinità, attraverso il perforamento della lingua, del pene e delle diverse parti del corpo allo scopo di far fuoriuscire sangue purificatore o il gioco della pelota che prevedeva il sacrificio di una delle due squadre.

Al secondo piano, si apre invece la collezione preistorica, una ricca raccolta di utensili, armi e oggettistica spaziante, dal Paleolitico, all’Età del Ferro, attraverso Neolitico ed Eneolitico. Interessante e straordinaria è la comparazione dei teschi appartenenti ai diversi stadi di evoluzione dell’uomo, attraverso i quali è ben visibile constatare le differenze fisiche tra diverse ere.

La sezione dedicata ai teschi degli uomini
primitivi, nel Museo Preistorico Etnografico, Roma
La teca contente i reperti archeologici riscontrati
durante gli scavi, nel Museo Preistorico Etnografico, Roma.

Venere di Savignano, 35.000 a.C., serpentina,
Museo Naz. Preistorico Etnografico, Roma
Lodevole è il Museo “(S)oggetti d’immigrazione”, raccolta di oggetti artistici provenienti da ogni parte del mondo; da evidenziare tra gli oggetti custoditi è la Venere di Savignano, tra gli esempi più noti della scultura raffigurante la Madre Terra, che si contraddistingue dalle altre sculture raffiguranti semplici uomini o guerrieri, per il sedere ed il seno prosperoso ed abbondante, fattori che la connotano appunto come la fecondatrice.

A mostra conclusa, la valutazione complessiva del museo si apre ad una dicotomia volta a prediligere alcuni aspetti ed a condannarne altri.
Se  nel primo caso infatti, è altamente formativa la presenza di tavolette raffiguranti le opere esposte in altorilievo, per permettere ai non vedenti di capire l’opera in questione, e alcune opere d’arte sono ben tangibili per poter analizzare al tatto i materiali e le tecniche, nel secondo, l’aspetto multimediale non si è evoluto: televisori di vent’anni fa trasmettono a loop pellicole ormai da restaurare, perché sgranate e comunque antiquate rispetto a quanto desumibile oggi giorno da internet.

Il Sistema multimediale datato del
Museo Naz. Preistorico Etnografico, Roma.
Il Sistema di Percorso Tattile del Museo
Nazionale Preistorico Etnografico, Roma.

Ad ogni modo consiglio vivamente di visitare il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Pigorini, un esempio utile a capire che il fattore unificante di tutti popoli, è la proprio la diversità e l’individualità della cultura, delle tradizioni e delle arti, di ognuno di essi.      

martedì 14 maggio 2013

Giovani Talenti: Dèsirèe Bazzo



Anche se laureata in Architettura presso l’Università degli Studi di Roma Tre, di Dèsirèe Bazzo si può affermare che è la classica ragazza che non scorda il suo primo amore: il disegno e la fotografia.
Infatti dopo aver effettuato un salto di stampo tecnico – scientifico, attualmente sta proseguendo il percorso prettamente artistico intrapreso alle superiori, frequentando il corso di Grafica e Fotografia presso l’Accademia delle Belle Arti di Roma.
Eccezionale disegnatrice ed interprete, Dèsirèe è capace di consegnare ai suoi disegni degnamente chiaroscurati e voluminosi, quell’alone di vita necessario a renderli fuori dall’ordinario.
E così nella Fotografia, campo in cui sta cercando di farsi strada, armata di capacità, determinazione, cuore e quella dose di talento necessaria, che la configura come una promettente fotografa del domani.


D: Ho avuto modo di vedere i tuoi disegni, che trovo meravigliosi. Hai una capacità notevole di rendere la morbidezza del muscolo di una mano, la fermezza dell’architrave di un’architettura, così come l’assoluta sensualità di una statua a tutto tondo di una donna. Quali sono i criteri che deve aver una composizione o un oggetto per catturare la tua attenzione di disegnatrice? Premettendo che come anzidetto, hai frequentato un istituto artistico, quanto c’è di accademico e quanto di tuo, nei tuoi elaborati?

R: Innanzitutto ti ringrazio; adoro il disegno come forma espressiva sia per catturare qualcosa di sfuggente nella mente, come accadeva per un progetto architettonico, sia per far rimanere su un foglio dei dettagli significativi che mi catturavano particolarmente. Oltre ai disegni prettamente tecnici dovuti, appunto, per svolgere al meglio alcuni esami, di solito preferisco rappresentare i volti, gli occhi delle persone, o un oggetto che abbia particolari riflessi e sfumature.
La luce è tutto, specialmente per le persone che, come me, disegnano a matita, prediligendo il bianco e nero: ciò mi ha portato poi a sviluppare la mia passione per la fotografia. Quando disegno è come se il tempo si fermasse anche se in realtà ne passa moltissimo, è un modo per riflettere e staccarsi dal mondo.


D: L’indirizzo “architettura” dell’istituto artistico che hai frequentato, ti ha permesso di vivere al meglio la laurea intrapresa in Architettura, un campo che probabilmente offre possibilità lavorative più concrete dell’artistico. Cosa ti ha lasciato l’esperienza intrapresa? Ancora, ha influito in qualche modo, sia positivamente che negativamente, su questo tuo nuovo percorso volto allo studio professionale della grafica e della fotografia?

R: Questi anni trascorsi a studiare nel campo dell’ Architettura mi hanno dato decisamente molto; ti apre la mente, vedi lo spazio in modo differente, si ha una percezione diversa delle cose, che siano architettoniche o meno; delle forme in generale, visive e mentali. Ritengo che il percorso che ho intrapreso allora, non si distacchi molto da quello che sto facendo adesso; sono molto connessi i campi artistici e diciamo che la facoltà di Architettura ha reso più chiara la mia idea su ciò che vorrei per il mio futuro. Magari tornerò ad occuparmi di arredamento un giorno ma, per ora, punto alla fotografia.


D: Il fil rouge che unisce questa e le altre interviste è la domanda sul rapporto con il territorio.
Sono del parere che il territorio formi, motivi, educhi e plasmi in qualche modo alcuni lati del carattere di una persona. Quanto ha inciso sul tuo essere, la terra in cui sei nato e hai vissuto? Qual è il rapporto che vivi con il paese in cui risiedi?

R: Penso che le proprie radici siano fondamentali, e se ci soffermassimo un secondo a ragionare sulla stessa parola “radici” capiremmo che non si chiamerebbero tali se non fossero la base di ciò che siamo oggi.
Sono perfettamente d’ accordo con te; il luogo dove si cresce plasma una persona, che lo voglia o meno. Io vengo da un paesino piccolissimo in mezzo ad una delle più belle vallate del Veneto, Miane, in provincia di Treviso; un paese circondato da vigneti e da boschi. Sento spesso la mancanza di quel posto perché oltre ad essere il luogo chiamato “casa” è un modo per distaccarsi dal resto, dalla vita frenetica di città, un modo per riavvicinarsi di più alla natura che ritengo di fondamentale importanza.


D: Munita della tua Reflex, di voglia di fare e di ispirazione, vai in giro in cerca di occasioni da cogliere al volo. Ed infatti a tal proposito, nel tuo portfolio configurano scatti “rubati” a persone che vivono la vita di tutti i giorni, ma anche servizi studiati a menadito su modelli in posa.
Se potessi scegliere tra scatto rubato e soggetto studiato, tra colori e bianco e nero, tra naturale e ritoccato, quali elementi configurerebbero la fotografia perfetta?

R: Devo ancora identificarmi in un genere vero e proprio ed è per questo che spazio moltissimo dalla fotografia naturalistica alla quella di strada, dalla foto in posa a quella molto ritoccata.
Ritengo però che la fotografia in bianco e nero sia la migliore e quella che più mi rappresenta, adoro le sfumature e forse la sento più mia in quanto disegno molto a matita.
“Fotografare” significa appunto "scrivere con la luce", la luce è tutto e lo sguardo in bianco e nero, a mio avviso, enfatizza l’ insieme contrastandolo.
Adoro le foto spontanee e quei famosi scatti rubati soprattutto a soggetti come i bambini e persone anziane, in quanto hanno delle espressioni fantastiche da poter catturare ed i segni del tempo da immortalare.
I miei temi si orientano quindi in base all'emozione e all'unicità delle sensazioni che al momento, mi catturano.


D: Cos’è per te la fotografia?

R:  Difficile da raccontare a parole.
Innanzitutto posso dire che è palesemente, un potente mezzo di comunicazione ed espressione artistica.
Ma il bello della fotografia sta proprio nel suo essere arte e strumento al tempo stesso; la fotografia fatta in vacanza o in occasioni simili è un efficace strumento di memoria, la fotografia di reportage è strumento giornalistico e di notizia, la fotografia studiata nella composizione e pensata nella realizzazione, diventa espressione artistica.
Donare una parte di te in una fotografia è fondamentale e non serve una reflex, ma il cuore, per catturare un emozione, un luogo, un avvenimento, per fermare il tempo.
Tutti abbiamo bisogno di ricordare, di ritornare a quell’ attimo che ci ha fatto fare lo scatto, e a volte, non basta la semplice memoria, l’ immagine arriva prima alla mente.
Se, nella fotografia, riesci ad imprimere l'emozione che ti ha suscitato quel particolare momento, e magari far riuscire a suscitare una reazione uguale alle persone che con la guardano, penso che, questa, si possa definire arte.


D: A concludere, hai una laurea triennale in Architettura che è un buon paracadute per qualunque esperienza tu voglia intraprendere, stai frequentando un corso volto all’acquisizione delle tecniche di grafica e fotografia e stai cercando di farti strada pubblicizzando i tuoi lavori (pertanto invito a visitare il tuo sito internet desireebazzo.wix.com e la pagina facebook desiree.b.photography).
Verso quali di questi, riponi fiducia per il tuo futuro? Hai progetti particolari da realizzare a tal proposito?

R:  Non ho progetti definiti per il mio futuro ma so per certo che se dovessi fare ciò che mi piace riguarderebbe la fotografia. Il campo dell’ Architettura mi interessa, non lo posso mettere in dubbio, soprattutto l’ interior design che lo ritengo più artistico per me, ma ad ogni modo, lo metterei al secondo posto per una passione più grande.
Sto portando avanti questa passione con dedizione e rispetto, da autodidatta dato che lo studio non mi da quello che mi sarei aspettata, attraverso perciò, numerosi sacrifici in termini economici ma anche di tempo e costanza, sperando un giorno che possa diventare la mia professione.
Posso dire che la curiosità e la voglia di scoprire cose nuove sta alla base del mio percorso di apprendimento.
Sogni nel cassetto li abbiamo tutti, spero che i miei un giorno si realizzino; penso bisogni avere tanta determinazione, forza di volontà, costanza e pazienza; ah si, ed un pizzico di fortuna, di certo, non fa male!

domenica 12 maggio 2013

Europeana 1914 - 1918: un caso valido di museo virtuale "democratico"


Nel 2014 è ricorso il centenario della Prima Guerra Mondiale; un evento che rivoluzionò l’assetto politico istituzionale, non solo di alcune colonie delle più influenti potenze mondiali, ma anche e soprattutto degli imperi e degli stati europei: l’Impero Asburgico fu ridimensionato all’Austria; l’Impero Russo fu attanagliato da una guerra civile e rivoluzionaria che portò ad una dittatura, l’Impero Tedesco fu istituzionalizzato nella repubblica che poi prese il nome di Weimar; l’Italia riconquistò il Trentino.

Forse con una sorta di velo malinconico, è triste constatare che ormai è quasi impossibile, tranne nel caso di persone ultracentenarie, poter ancora intervistare i testimoni della guerra che fu; piccola consolazione può darcela il fatto che su canali multimediali, in tv, sui giornali, è possibile informarsi, leggere ed acculturarsi circa i punti di vista ed i racconti soggettivi, raccolti nei decenni scorsi, di chi quella guerra la visse.

Perché la Prima Guerra Mondiale, non fu semplice e mera guerra: fu un evento di grande portata che modificò la vita sociale di tutti i giorni, che intaccò la storia, la cultura, l’arte e la letteratura.
Basti pensare infatti all’Ermetismo di Ungaretti, poeta e letterato che militò in trincea sul fronte italo – austriaco, che ben seppe raccontare nelle sue composizioni l’orrore della guerra, o al dadaismo svizzero, il movimento di avanguardia artistica, nato a Ginevra nel 1916 come movimento che si opponeva alla guerra.

In questa visione totalizzante del quadriennale periodo bellico, vi segnalo il sito internet  http://www.europeana1914-1918.eu/it, che si prepone di ricostruire una storia della guerra, volta però all’analisi dello scorrimento della vita di tutti i giorni nei paesi d'Europa tra trincea e stato.  

E a tal proposito le finalità sono ben chiare nella premessa della home: si richiede ad ogni cittadino in possesso di cimeli, fotografie, documenti, o anche solo custode di una storia inedita, coscienzioso e desideroso di continuare la tradizione conoscitiva della nostra storia, di recarsi presso uno dei punti istituiti in tutta Italia, nel corso dell’anno, per permettere la digitalizzazione di quelle testimonianze.

Il progetto, realizzato con il supporto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Fondazione Museo storico del Trentino, è stato realizzato in seguito al successo dei roadshow sulle storie famigliari legate alla Prima Guerra Mondiale svoltisi in Germania nel 2012.

Crocifisso custodito nel
paltino di un soldato, 
scalfito da un proiettile
Ovviamente per onestà intellettuale va specificato che il progetto “Europeana 1914-1918 Giornata di Raccolta di Storie Famigliari” non è un progetto a sé stante, ma fa parte di un programma fortemente voluto dalla Regione del Trentino, volto a promuovere un ciclo di attività con lo scopo di sostituire “il fronte bellico con sentieri di pace”, con una serie di progetti che puntano a creare un "domani di concordia tra i popoli di differenti culture e fedi religiose”.
[Per maggiori informazioni sulle attività che il Trentino sta promuovendo per commemorare la Grande Guerra, visita http://www.trentinograndeguerra.it]

Visitando il sito che vi ho segnalato, troverete informazioni molto più dettagliate a riguardo, nonché una meravigliosa mostra virtuale, contenente le testimonianze già digitalizzate nei paesi anglosassoni, che ben rendono una visione probabilmente a noi poco conosciuta, di come la società tedesca, irlandese ed inglese ha vissuto la grande guerra.

La mostra in questione, si ramifica in sei tematiche: The Unexpected (L’inaspettato); News From the Front (Notizie dal Fronte); Family Stories (Storie famigliari); A soldier’s kit (l’equipaggiamento del soldato); People in documents (Le persone attraverso i documenti); Propaganda.

Bibbia custodita nel taschino di un
soldato, dilaniata da un proiettile. 
The Unexpected, raccoglie testimonianze legate all’oggettistica; testimonianze che come suggerite dal nome della tematica, narrano situazioni estreme, inaspettate e curiose. Forse tutti abbiamo letto o ascoltato la storia del soldato salvato dal colpo del cecchino, dalla bibbia o dal crocifisso riposti nel taschino; ebbene sul sito, la foto della bibbia traforata dal proiettile o del crocifisso scalfito, vi permetterà di dare un nome ed una collocazione a quel soldato e di concepire che questo aneddoto non è mai stato una leggenda metropolitana ma un fatto realmente accaduto.

ST.M. George Cavan, foglietto d'avviso alla famiglia, 1918.
News from the Front, testimonia il carteggio intriso di malinconia, paura e aberrazione verso la guerra, tra i soldati al fronte e le loro famiglie. Ed è un brivido poter ammirare lettere, foglietti e note scritte da quei militari, morti pochi giorni dopo, come nel caso del Sergente Maggiore George Cavan, che avvisato all’ultimo minuto che avrebbe dovuto combattere sul fronte francese, riuscì a scrivere un fogliettino che citava “Cara moglie e figli, parto per la Francia – vi amo tutti, Papà”, ad inserirlo in una scatolina di fiammiferi ed a gettarla dal treno transitante nei pressi del paesino scozzese, in cui viveva la sua famiglia, pochi giorni prima di morire in trincea.

Cartolina inviata da Adolf Hitler, nell'ottobre 1916
Ancora ci sono chicche di rispetto, come la missiva inviata da un certo soldato Adolf Hitler al compagno di reggimento Lanzhammer, in cui gli narrava che sarebbe tornato al fronte molto presto.
La cartolina che raffigurava il castello di Norimberga, città nota per i risvolti futuri legati proprio alla politica del dittatore, è da contestualizzarsi nell’episodio in cui Hitler nell’ottobre 1916 venne ferito da una granata e fu ricoverato presso l’ospedale di Belitz vicino Berlino.

Cartoline di Michael Hannon
Le cartoline più belle però, a mio avviso, rimangono quelle inviate dal soldato Michael Hannon a sua madre, che se affiancate l’un l’altra, rivelano come se fosse un puzzle, la figura di un soldato francese. Una perla degli anni della guerra, probabilmente difficile da reperire in altre sedi.

Family stories, si preclude di raccontare attraverso testimonianze valide se non uniche, aneddoti particolari che legano i militari al fronte ai componenti delle rispettive famiglie o illustrano i punti di vista dei civili costretti a vivere le decisioni politiche dei loro governatori. 

E qui si pongono le lettere dei due fratellini di Amburgo che illustravano il nemico come un feroce despota arrivato senza motivo a fare razzie, o la collezione di animali scolpita dal soldato Charles Grauss  per sua figlia Ghislaine, custodita in una scatola di latta. Il militare, che amava sua figlia alla follia, a cui inviava disegni illustrati che raccontavano episodi felici lontani dall’idea della guerra, morì in battaglia nel 1918.

Animali scolpiti da Charles Grauss per sua figlia Ghislaine
Lettera simpatica di Charles Grauss a sua figlia Ghislane

Cartellino da Pronto Soccorso
A soldier’s kit, apre una panoramica sull’equipaggiamento dei militari, sui loro effetti personali e sulla storia che legava questi ai loro proprietari; People in documents, racconta la vita civile e di trincea attraverso particolari documenti. Nel primo caso è encomiabile l’opera del professore Hans Hansen Lindorff, che scrisse quindici dettagliate biografie di suoi allievi morti in guerra; nel secondo è curioso esaminare il tipico cartellino che si apponeva sui corpi dei feriti durante una battaglia: una striscia rossa significava che il soldato ferito era in grado di essere rimosso dal luogo in cui giaceva ed essere curato, due strisce rosse indicavano una gravità allarmante delle ferite che impossibilitavano il soldato al movimento e molto spesso divenivano quindi preludio di morte.

Propaganda infine, attesta la diffusione dell’idea e dell’orgoglio nazionale attraverso fotografie, manifesti e l’induzione di questi sentimenti nel lavoro di tutti i giorni e nei lavori creati per le donne, a fronteggiare la crisi di manodopera. Curioso è l’anello “I gave gold for iron”, che simboleggiava l’aiuto solidale verso la patria, per cui in cambio di comune ferro, il cittadino rendeva i propri monili d’oro utili a fronteggiare le spese di guerra.

I gave gold for iron, l'anello che attestava una donazione d'oro alla Patria.

Detto ciò, dopo questa visione generica – pertanto vi invito a vedere tutta la mostra sul sito – è doveroso ricordare che per incrementare la documentazione e la mostra di Europeana, è possibile inviare fotografie o documenti previa registrazione al sito suddetto, nello specifico cliccando sul link http://www.europeana1914-1918.eu/it/contributor.