mercoledì 10 aprile 2013

Storia lasciata in sospeso: Proposta di acquisto allo Stato di un lotto di dipinti inestimabili


L’articolo postato sul blog di un caro amico, che si interrogava su quali fossero i fattori che hanno portato un paese del calibro della Gran Bretagna a valorizzare i beni culturali italiani posseduti nei propri musei, nello stesso periodo in cui l’Italia vive un momento di crisi museale, mi ha portato ad guardare con occhio critico all’argomento.

In quell’articolo (per visualizzarlo clicca qui), su invito del redattore, intervenivo con una mia considerazione circa l’utilità di riportare tali beni a casa, per cui creavo un preambolo alla discussione, adducendo le motivazioni per cui quei beni fossero siti nei musei anglosassoni, ma in generale, per cui i beni del nostro Patrimonio Nazionale fossero nei musei di tutto il mondo.

Motivazioni che a mio dire, in una sintesi compatta, sono ragguagliabili in tre fattori: andando a ritroso nel tempo, il primo riguarda le requisizioni napoleoniche che hanno sventrato soprattutto lo Stato Pontificio e la Repubblica di Venezia che furono; il secondo è dato dall’allarmante considerazione che non è mai esistita un’effettiva legge di tutela sino al 1902 (che sarà quella del 1907 e ancora del 1909), per cui le esportazioni erano all’ordine del giorno in un clima volto ad una politica liberale sulle arti; il terzo è l’evidente continuum dell’esportazione, che diviene quindi illecita dopo le leggi di tutela, ma non si attenua anche se limitato dalla Censura Militare.

Sul piano pratico, lavorando al Fondo della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, sito all’Archivio Centrale di Stato, è cosa giornaliera ritrovarsi tra le mani qualche segnalazione della Censura Militare sull’esportazione illecita di qualche dipinto o statuetta, se non proprio dichiarazioni di vendita di opere d’arte all’estero, previo avviso al Ministero della Pubblica Istruzione o esami nazione delle stesse all’Ufficio Esportazione di competenza territoriale.

Solitamente i fascicoli presentano ricostruzioni complete dell’iter a cui son soggette tali opere. Allora quand’è così il mio animo si quieta, nella buona e nella cattiva sorte: se lo Stato decideva di esercitare il diritto di prelazione sull’opera in questione, per relegarla in qualche Galleria italiana, la soddisfazione è grande; se lo Stato non avendo fondi necessari (come durante gli anni di guerra) molla la presa permettendo la cessione ai privati residenti all’estero dell’opera, un po’ il mio orgoglio di italiano ne risente, ma almeno riesco a costruire comunque il percorso di quell’opera.

Poi succede come nel caso che discuterò adesso, che venga presentata una panoramica di dipinti allo Stato,  per cui questo deve esaminare se conviene esercitare il diritto di prelazione, date le offerte ricevute dall’America, da Genova e da Parigi e la storia sembra interrompersi sul più bello.

E la cosa turba, perché non stiamo parlando di dipinti qualunque.
Per una chiara contestualizzazione storico – geografica della questione, è d’uopo chiarire che la proposta fatta allo Stato, di cui sto parlando, è ascrivibile al 1919: in una lettera privata dattiloscritta, il conte Montecuccoli Laverchi residente a Torino, dichiarandosi delegato di un altro nobile suo amico, offriva allo Stato dipinti, disegni e cartoni di inestimabile valore, custoditi nel suo castello in Svizzera, stimati in migliaia, addirittura milioni in taluni casi, di lire, da un certo Dottor Hartig della Pinacoteca di Monaco di Baviera. 

La lista dei 36 dipinti offerti in vendita con diritto di prelazione allo Stato Italiano nel 1919.

Una Sacra Famiglia del Correggio, una Santa Maddalena di Guido Reni, un Amorino del Parmigianino, un Angelo Gabriele di Andrea del Sarto, uno schizzo della Sacra Famiglia di Raffaello, una Crocifissione di Giotto, una Maddalena di Annibale Carracci, una Madonna con Gesù e Giovanni di Leonardo da Vinci, figuravano in quella lista d’oro accanto ad altre opere di pittori stranieri del calibro di una pietà del Van Dyck, una Resurrezione di Lazzaro del Rembrandt, una Mater Dolorosa di Van Eyck, una testa d’apostolo di Durer.

Purtroppo le informazioni a riguardo si chiudevano lì. Da quel fascicolo non ci è decisamente possibile capire se alla fine lo Stato Italiano abbia esercitato o meno il diritto di prelazione sulle opere in vendita, né, in caso affermativo, se solo su alcune opere o su tutte!

L’unica soluzione per non aver l’amaro in bocca è stata quindi, provare a far una ricerca su internet, sperando di riuscire ad individuare se non tutte, almeno parte di quelle opere d’arte.
Fare una ricerca è difficile ovviamente e non sempre porta ad avere risultati soddisfacenti, perché bisogna preventivare che spesso artisti di quel calibro hanno ripetuto diverse volte l’iconografia del quadro citato e dal documento non abbiamo riferimenti specifici atti a confermare qualunque ipotesi: la stima è soltanto indicativa di un valore – implicito – dato dall’attribuzione dell’opera ad un genio. 
Per altro l’attribuzione data ad un’opera, non sempre veniva riconfermata dagli esperti storici dell’arte inviati dal Ministero ad ispezionare gli oggetti d’arte. E’ forse è anche per questo se sui 36 dipinti in vendita, son riuscito solo a confermare con certezza la collocazione attuale di sette di quelli.

A. Van Dyck, Il compianto del Cristo Morto, 1634, olio su tela,
Alte Pinakothek, Monaco di Baviera.
 
Partiamo da Van Dyck. Pare che gli siano attribuite ad oggi due versioni della sua Pietà. Ragionando che quella dichiarata dal conte misura circa 120 x 153 cm, addurrei che il dipinto in questione sia Il compianto del Cristo Morto, che misura 109 x 149 ed è sito all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. (In effetti anche nelle opere a seguire, le dimensioni sfasano di qualche centimetro).


Non ho dubbi su Rembrandt: La Resurrezione di Lazzaro, acquaforte e bulino del 1632 circa, è attualmente custodita allo Staatliche Museen Kupferstichkabinett di Berlino, misurando più o meno stessa lunghezza ed altezza di quella dichiarata sulla relazione: 36,6x 23,8.

La ricerca de I tre sapienti di Bernardo Strozzi, iconograficamente parlando, mi riporta alla sua opera I tre filosofi, che immagino quindi essere la citata nell’offerta. Attualmente vedo, è sita a Palazzo Durazzo Pallavicini, a Genova.

B. Strozzi, I tre filosofi, XVII secolo, olio su tela, Palazzo Durazzo Pallavicini, Genova. 


Giotto, Crocifissione, 1320,
olio e tempera su tavola,
Musèe des Beaux Arts, Strasburgo.
La Mater Dolorosa del Van Eyck attualmente è sita all’Art Institute of Chicago, la Crocifissione di Giotto, (la tavola misurante cm32 x 45) è in Francia, al Musée des Beaux-Arts di Strasburgo, il dipinto di Franz Hals, Il Bevone (The merry drinker), è collocato al  Rijksmuseum di Amsterdam, e la tavola di Andrea Solario, Ecce Homo, ad Oxford, all’Ashmolean Museum.

Adduco allora le mie conclusioni. Ma sia chiaro, le mie sono solo fantasiose ipotesi. Non posso porre la mano sul fuoco sulla compatibilità delle opere che ho individuato con quelle dichiarate dal nobile torinese.

Detto ciò, a meno che tutti i dipinti non siano rimasti nel castello svizzero, la mia tesi sembrerebbe dimostrare che quell’acquisto non avvenne, che alcuni dipinti siano stati attribuiti post esame ad altri artisti (si spiegherebbe così la sparizione nel nulla della maggior parte di quelle opere), e che a seguire gli stessi furono venduti a privati, collezionisti e magnati italiani e stranieri.

J. Van Eyck, Mater dolorosa, 1480 - 1500,
olio su tavola, Art Institute of Chicago.
Il Dottor Hartig, magari, valutando le opere, decise di far un’offerta per il Van Dyck.
Ai privati di Genova, Parigi ed America, ancora, furono vendute la maggior parte delle opere; infine altre presero il volo per Berlino, Oxford, Amsterdam e chissà dove.

Ma infondo mi auguro di sbagliarmi. Mi auguro di aver fatto male le mie ricerche; che siano solo casuali le compatibilità di supporto e dimensioni dei dipinti e sia ancora casualità che quelli da me individuati si trovino nelle città che avrebbero comprato dal conte Montecuccoli Laverchi.

Perché se quello che tanto non vorrei, fosse vero, allora sono dinanzi alla dimostrazione effettiva che per quanto di noi italiani si dica il contrario, in materia di affari non siamo affatto furbi.  








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