martedì 30 aprile 2013

L'idea dell'artisticità di un panorama "monumentale"


Una delle azioni del turista medio, che da storico dell’arte in erba ancora sto cercando di inquadrare, è quella di salire in cima agli edifici più alti e caratteristici della città visitata, relegando ad essa un senso di artisticità.
Tra le certezze della vita infatti vi è quella per cui, il percorso previsto per arrivare sin nella lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, o di San Pietro a Roma, non rimarrà mai privo di adepti.

Panorama di Firenze, visto dalla Cupola di S.Maria del Fiore
Ma cosa spinge il turista a far ore di fila per poter guardare la città da quel punto di vista?

Interrogando me stesso, e a dir la verità, porgendo la domanda anche a qualche amico per creare una discussione sull'argomento, ho cercato di inquadrare il fenomeno, tentando di capire in che modo il tanto agognato desiderio, toccasse la sfera artistica insita in ognuno di noi ed allo stesso tempo quanto la cosa,  potesse però effettivamente essere considerata oggettivamente “artistica”. 

Mi spiegherò meglio. Sono sempre più convinto che il turista si senta spinto a raggiungere le alture delle torri, delle cupole, degli edifici in genere, quasi come se quello fosse il culmine di un iter artistico intrapreso con la visita della struttura in questione: chi ammira l’interno dell’Altare della Patria o di Castel Sant’Angelo, può scegliere di andare via, oppure può scegliere di salire sulla cima per poterne ammirare il panorama. Fare la seconda cosa però, implica nella psiche del turista, l’idea di completare un percorso artistico, perché il luogo in cui si esplica è tale.

Panorama di Roma dalla terrazza dell'Altare della Patria
È anche vero però, che questa arida visione dei fatti, senza dubbio cinica e poco fiduciosa nei confronti di un’intelligenza di base del profano in arte, può collimare con una considerazione di stampo più analitico.

Infatti, provando ad inquadrare in modo lungimirante il mero gesto, alla fine della fiera, una volta in cima al luogo designato, ciò che tendenzialmente si apre alla vista del visitatore è comunque un aspetto della città, che non può essere contemplato da altri punti di vista.

Panorama di Parigi, dalla Tour Eiffel
Per cui, chi attende per ore di salire sulla Torre Eiffel, alla fine sicuramente avrà del luogo circostante una visione a 360° della città, che certamente non potrà avere da qualunque altra altura di Parigi.

E a detta di ciò, su un discorso prettamente inerente alle idee di stampo architettonico – compositivo,  spesso bisogna anche ammettere che determinati scorci e inquadrature si possono ottenere solo da un determinato punto di vista specifico designato, come nel caso della serratura del cancello del Priorato, nel Giardino degli Aranci sul Gianicolo, dal quale è ammirabile la cupola di San Pietro.

Cupola di S. Pietro, visto dalla serratura del Giardino degli Aranci
Quando vale questa teoria, la mia tesi cade, anzi mi si ritorce contro: è vero che il gesto di salire in una specifica altura non è esso stesso, gesto artistico, ma è anche vero che questo, porta ad una visualizzazione prospettica e studiata del paesaggio, configurando quell’azione come artistica.

In realtà se c’è qualcosa che ho capito ragionando su quest’argomento, è che probabilmente l’associazione dell’artisticità al panorama visibile dall’altura di un edificio artistico, è altamente soggettiva.

E probabilmente non c’è una verità assoluta, perché esulando dai tecnicismi e dagli stereotipi, in fondo l’arte è tutto ciò che emoziona; e quindi se l’idea di ammirare un paesaggio dalla terrazza di un monumento, porta il visitatore a provare emozioni più per il luogo in cui si trova che per quanto vede, allora comunque ben venga, che in qualche modo, sia riconosciuta artisticità a quella situazione. 

lunedì 29 aprile 2013

Giovani Talenti: Alessio Zazzetta



Alessio Zazzetta è un giovane laureando in lettere moderne presso l’Università degli Studi di Roma Tre.
Ad onore del forte interesse e della passione per la letteratura e per la scrittura in genere, completa il suo percorso di forte crescita formativa, collaborando per Historica edizioni, una casa editrice in ascesa, ed il sito letterario Scrivendo Volo, in qualità di redattore.
Sempre attento alle novità editoriali, curioso di natura ed affamato di sapere, Alessio è il giovane talento simbolo di una generazione, che seppur in costante evoluzione, tende uno sguardo perenne al passato riconoscendone il valore.
E non mi stupirei di ritrovarmi tra le mani, tra qualche anno, una critica o un articolo stampato su qualche giornale a tiratura nazionale, che porti la sua firma.


D:  Per quanto sia di dominio pubblico l’idea che quello umanistico sia un settore che offra sbocchi lavorativi limitati, hai deciso di iscriverti presso la facoltà di Lettere. Da dove nasce questa passione per il mondo letterario?

R: L’amore per la letteratura e per i libri nasce dal liceo, devo molto alla mia professoressa che è riuscita grazie alle sue lezioni su Dante, e non solo, a farmi appassionare ai grandi classici e soprattutto a farmi comprendere che la letteratura non è qualcosa di noioso e fuori dal tempo ma è attualità e cultura. Devo essere sincero non ho mai pensato alle conseguenze della mia scelta. Molte persone cercavano di indirizzarmi altrove, ma la passione per i libri era troppo forte e non credo che potrei mai pentirmene. 


D: Per quel che ti conosco, potrei affermare che ami leggere a tal punto, che probabilmente se potessi, vivresti tranquillamente in una libreria/biblioteca. In base a quali criteri scegli le tue letture di volta in volta?

R: Amo andare in libreria, ovviamente anche in biblioteca ma preferisco sempre comprarlo il libro perché per viverlo al meglio ho bisogno di sentirlo mio, e non ho un criterio di scelta per i libri, lascio che l’ispirazione mi colga sul momento. Diciamo che di norma so già benissimo quali libri non comprare, Fabio Volo in primis, e per il resto amo spaziare in tutte le letterature, dall’italiana e occidentale a quella asiatica, che rimane la mia preferita. 


D: Se dovessi scegliere un best seller e/o un autore dei nostri giorni ed uno del passato, quali opere o scrittori citeresti? Perché?

R: come ho già detto amo tutta la letteratura in toto, ma se dovessi citare un’opera dei nostri giorni direi Sorgo Rosso di Mo Yan o Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki, perché hanno tutto ciò che alla letteratura italiana manca da tempo: una grande storia da raccontare, uno sfondo storico, per quanto riguarda Sorgo Rosso, importante e soprattutto originalità e cultura da diffondere. Per quanto riguarda invece un grande classico credo che non potrei non scegliere La Divina Commedia e Notre Dame de Paris che sono i due libri che mi hanno formato e mi hanno fatto amare la letteratura. Leggendoli ho capito cosa vuol dire sognare ad occhi aperti. 


D: Da dati allarmanti, pare che negli ultimi tempi l’editoria in genere abbia subito un calo notevole, addirittura adducibile al 7,9% negli ultimi due anni. Lavorando presso una casa editrice, qual è la tua impressione a riguardo? Quale potrebbe essere la radice del problema?

R: Si il calo è disarmante, soprattutto se pensiamo che all’estero non avviene la stessa cosa. Purtroppo credo che il problema di fondo sia la mentalità italiana, che tende sempre più a dimenticarsi dei libri e quindi di leggere. L’italiano medio compra e quindi legge pochissimo e nella maggior parte dei casi libri di intrattenimento con bassissima caratura culturale, ma il dato più allarmante e più preoccupante è che in Italia tutti scrivono e si sentono in grado di divenire grandi scrittori.


D: Il fil rouge che unisce questa e le altre interviste è la domanda sul rapporto con il territorio.
Sono del parere che il territorio formi, motivi, educhi e plasmi in qualche modo alcuni lati del carattere di una persona. Quanto ha inciso sul tuo essere, la terra in cui sei nato e hai vissuto? Qual è il rapporto che vivi con il paese in cui risiedi?

R: Amo l’Italia e soprattutto ho un amore sconsiderato per Roma che è la mia città natale, credo non ci sia luogo migliore al mondo per un sognatore amante dell’arte e della letteratura, Roma ha quel giusto equilibrio tra classicità e modernità. È una città  romantica in grado di mostrare i fasti dell’antichità e quindi far divenire le persone che la vivono dei veri e proprio sognatori.


D: Per concludere, riallacciandoci a quanto detto nella prima domanda, una soluzione che non attenua il problema, ma rincara le speranze, è il proseguimento degli studi di stampo umanistico, oltre la Laurea Magistrale, all’inseguimento di una carriera universitaria.
Qual è la tua linea di pensiero a riguardo di ricerca e il dottorato? Hai progetti particolari per il futuro?

R: Per il futuro mi iscriverò alla facoltà di editoria e giornalismo alla Sapienza e quindi proseguire con la laurea Magistrale, poi mi piacerebbe fare esperienza all’estero e se possibile in Asia, magari in Giappone, anche se non disdegnerei mai l’opportunità di un dottorato di ricerca e proseguire la carriera universitaria in Italia. I progetti sono molti e a volte sembrano al confine tra sogno e realtà, ma fino a quando si ha l’opportunità mai precludersi qualsiasi obiettivo











domenica 28 aprile 2013

Giovani Talenti: Gabriele Cioni



Gabriele Cioni è quello che si può definire un artista a tutto tondo.
Appassionato di musica e storia della musica, studia “Organizzazione di Eventi” presso il DAMS di Roma Tre. Parallelamente frequenta “ l’Accademia Professionale Percento musica”, sempre nella città di Roma.
Ora Gabriele suona nel Jazz Band dell'Università di Roma Tre, in duo chitarra e voce, e raramente da solista. Ancora, scrive occasionalmente per qualche blog.
Attraverso quest’intervista proverò a estrapolare e a raccontare l’estro artistico di Gabriele, un talento della musica sempre disponibile, educato e diplomatico.


D: Tre anni in un’accademia professionale, che dal nome lascia trapelare un’induzione agli insegnamenti riguardanti la musica, ha senza dubbio rifinito la tua passione. Come nasce il tuo amore verso la musica e cosa hai carpito da questa esperienza?

R: Eh, sì. E' una domanda davvero difficile, ma cercherò di spiegarla in breve. Il mio amore per la musica è congenito e di famiglia. Sin da bambino sono cresciuto in un ambiente familiare abbastanza ricco di stimoli. Non posso dimenticare una recita delle scuole elementari in cui io mi cimentavo a cantare una canzone tradizionale Salentina, con non poche difficoltà. Ho scoperto la chitarra, il mio strumento, all'età di quattordici anni iniziando a suonare la chitarra folk di mio padre; posso dire che sia partito tutto da lì. Ho iniziato a suonare da autodidatta e frequentato per un anno una scuola musicale della mia città Nardò, con un validissimo insegnante. L'anno successivo all'età di diciotto anni mi sono trasferito a Roma, dove ho iniziato un percorso di studi professionale presso l’accademia “Per Cento Musica”, che ho frequentato per tre anni consecutivi. Credo che la musica sia una delle poche cose per cui vale la pena di vivere, perché attraverso di essa ho imparato, e continuo ad apprendere parecchio. Credo che la musica trasmetta la gioia di vivere, lo scorrere della vita e le sue storie. La musica si può “sentire” percepirla, ascoltarla in diversi modi; credo però che la cosa più bella sia viverla in pieno e lasciarsi trasportare da essa. Adesso è difficile darti un resoconto preciso di cosa sia per me la musica, ma ti posso dire definitivamente che la musica è parte di me e credo che non potrei vivere senza di essa. Come diceva il buon caro Nietzsche “Senza la musica la vita sarebbe un errore”.


D: In seguito ti sei iscritto al DAMS di Roma in Organizzazione di eventi, un corso di studi volto a integrare probabilmente la musica nelle sue finalità ma non a renderla unica protagonista delle tue attività. Come mai hai deciso di intraprendere questo percorso, e come ha influito sulla tua passione?

R: Sì. Ho deciso di intraprendere questo percorso per crearmi una strada alternativa, cercando di ampliare i miei orizzonti culturali. Adesso che mi trovo quasi a conclusione di esso, posso dirti che è stata una buona scelta. Tornando indietro però forse non lo rifarei, poiché ha influito molto sulla mia “passione”, se così vogliamo chiamarla, togliendo ore importanti allo studio dello strumento.


D: Eppure esiste un corso di studi DAMS anche a Lecce, a non molti chilometri da Nardò, il tuo paese di residenza. Come mai hai scelto di continuare a formarti a Roma?

R: Sì, a Lecce esiste qualcosa di simile. Ho visto Roma quasi come una scelta obbligata perché la vita di paese mi è sempre stata stretta. Sono una persona dalle ampie vedute e mi piace andare oltre le cose, cercando sempre qualcosa di nuovo. Roma offre tanti stimoli e opportunità diverse, anche se bisogna barcamenarsi affrontando tante difficoltà in questa giungla di asfalto.
Non è facile vivere a Roma e se consideriamo come stanno andando le cose in questo periodo in Italia, la scelta di stare in questa città è molto rischiosa e dispendiosa. Sappiamo tutti che gli affitti costano parecchio e per uno studente non è facile viverci, ma uno si arrangia come può con l'aiuto anche dei genitori.


D: A tal proposito, il fil rouge che unisce questa e le altre interviste è la domanda sul rapporto con il territorio.
Sono del parere che il territorio formi, motivi, educhi e plasmi in qualche modo alcuni lati del carattere di una persona. Quanto ha inciso sul tuo essere, la terra in cui sei nato e hai vissuto? Qual è il rapporto che vivi con il paese in cui risiedi?

R: Io sono nato e cresciuto fino all'età di diciotto anni in quella splendida terra che è il Salento. Sento di farne parte a pieno, ma nello stesso tempo mi distanzio su alcuni punti. Sai, ci sono molte persone che sono radicate al proprio territorio in maniera eccessiva. Io non sono uno di quelli, voglio bene alla mia terra, la rispetto, difendo tutte le tradizioni, cerco di farne parte per quanto posso. Non dimentico le mie origini, ma il mondo è grande e ci sono nuove culture e musiche da scoprire. Quello che voglio dire è che il Salento non deve essere ricordato solo per “La notte della taranta”, ci sono veramente tante altre situazioni, tradizioni, ricordi, storie e canti da ricordare e riscoprire. Per quanto riguarda il rapporto con la mia città, questo mi rende assai triste. Pian piano il mio paese si sta lasciando morire;  la colpa è di tutti i cittadini che non fanno nulla per cambiare le cose. Non c'è una vita culturale attiva; l'unico “movimento” è quello provocato dai ragazzi residenti fuori che si ritrovano a casa per le vacanze e da qualche bar che propone musica. Per il resto non c'è quasi nulla. Abbiamo dei posti bellissimi che andrebbero rivalutati e soprattutto vissuti.


D: Suoni presso la Jazz Band di Roma Tre, come solista o in duo, a dimostrazione che prendi sul serio la tua passione e la rendi attivamente partecipe del tuo vissuto. Oltre al jazz, che altro tipo di musica suoni? Qual è il genere che preferisci?

R: Sì, come dicevo prima la musica, è una parte essenziale di me. E' vero il jazz mi piace molto, ed è un mondo cangiante sempre in continuo cambiamento. La strada per acquisire uno stile personale in questo genere musicale è però davvero lunga e tortuosa. Per fare questo bisogna studiare, suonare e soprattutto ascoltare tanta musica; è quello che sto provando a fare io. Parlando di altri generi musicali, potrei dire che mi piace molto il blues, la musica brasiliana, il country, il folk, il rock ... insomma non disdegno altri generi, l’importante che si tratti di “buona musica”. In fondo la musica di oggi è un connubio di tanti stili diversi, e rimanere fossilizzati in un genere o in determinate etichettature sarebbe davvero stupido. Odio proprio per questo cover band, perché bisogna cercare la propria strada ed esprimere qualcosa di personale.


D: L’ultima domanda è prettamente personale. Ho avuto modo di leggere il tuo articolo Al centro della musica tra tradizione & innovazione e l’ho trovato molto interessante; a mio parere rende di te l’idea di una persona che “ne sa” di storia della musica e che ha un modo tutto suo di raccontare le cose. Senza dubbio una caratteristica positiva quando questa si tramuta in un’evasione dagli schemi accademici che sono ormai un cliché risaputo.
Allora ti chiedo: hai un periodo storico che preferisci sugli altri?

R: Ti ringrazio per aver letto e citato il mio articolo, questo secondo me è un buon modo per sfruttare le potenzialità infinite che la rete ci offre. E ti ringrazio anche per questa fantastica intervista in cui ho cercato di raccontare la mia esperienza senza troppi orpelli, in modo da far capire veramente la mia essenza di persona e di musicista. Se dovessi scegliere un periodo storico, sicuramente farei il romantico nostalgico e sceglierei forse di vivere o in America negli anni '30, periodo in cui esplodevano le big band e lo swing, quando le persone danzavano a ritmo di questa musica che riusciva a far ballare veramente tutti. Non possiamo però tornare indietro se non con la fantasia, se non inventassero una macchina per viaggiare nel tempo come nel film “Ritorno al futuro”. Dobbiamo tener conto del tempo in cui viviamo sfruttando a pieno le potenzialità delle nuove tecnologie, costruendo idee semplici e coltivando a pieno le nostre arti, senza essere assorbiti dalla tecnica, riuscendo a creare una strada per esprimerci e far sentire a pieno la nostra voce. Ti ringrazio ancora Dario per quest’opportunità che mi hai dato, spero che sia stato esauriente alle tue richieste un saluto e un abbraccio grande. Buona musica a tutti, alla prossima!  

giovedì 25 aprile 2013

La neve di giugno, il 25 aprile


Con mia somma tristezza è evidente come negli ultimi anni, il 25 aprile, data in cui viene ricordata la liberazione italiana dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, sembri poco onorare l’evento, dato quanto accade costantemente tra le mura del Parlamento e dei maggiori organi legislativi ed esecutivi. 
In un clima volto all’attaccamento morboso alle poltrone, alla totale noncuranza e dimenticanza del primario compito dei politici, che è quello di rappresentare il popolo, dietro quelle quattro mura costantemente si  procede ad un vero è proprio maciullamento degli ideali per i quali i partigiani hanno combattuto. Perché a trascinare un movimento ufficioso di così grande portata, non è stata solo l’esigenza di cacciare il nemico dal territorio, ma anche il desiderio di poter da allora in poi garantire una democrazia il cui primo compito fosse  porre il cittadino su un piedistallo, preservando la sue  libertà di idee, di pensiero e di azione, cosa che in maniera sempre più evidente non accade.

Ad oggi, devo ammettere, la mia impressione è volta ad evidenziare una sorta di “effetto vintage” a riguardo degli ideali dei padri della democrazia, da parte della nuova generazione che si affaccia al mondo del lavoro e della politica: effetto vintage non a caso; infatti questa nuova esplosione di consapevolezza sembra essere una cosa nata in questi ultimi anni, dopo decenni di tacito assenso in susseguiti governi che hanno sempre più portato il Paese al deperimento ed alla crisi.

O forse quello che io chiamo effetto vintage, non è altro che un effetto massmediologo, di cui facebook è il maggiore motore di fruizione. Cosa molto probabile dato che, nonostante questa vecchia consapevolezza della nuova generazione, la situazione governativa non sia cambiata.

Roberta Biagiarelli, attrice ne' La neve di giugno. 
Comunque, premesso ciò, che tengo a specificare, sono solo mie considerazioni, passo al concreto. Per onorare il 25 aprile e renderla festa atta alla commemorazione ed alla riflessione di quanto accaduto piuttosto che motivo di grigliate in campagna e ubriacate con gli amici – che però ci stanno sempre bene – vi invito a guardare un lungometraggio che hanno trasmesso per un paio d’anni in seconda serata sui canali rai, e che io puntualmente ho visto. E ogni volta è una emozione nuova.

Il cine - documentario di cui parlo è La neve di giugno, di Andrea Dalpian. Di seguito riporto il link che riconduce all'intero film: La neve di giugno.

Roberta Biagiarelli, autrice con Francesco Niccolini della pièce Resistenti, leva militare ‘926, versione teatrale di quello che è stato poi il film in collaborazione con il Dalpian, in quest’ultimo si apre ad un monologo lungo il giusto per non annoiare mai e costruire sullo spettatore, un involucro di sapere e curiosità, mescolando a dovere le qualità più importanti delle tre arti massmediologhe: drammaturgia teatrale, tecnica cinematografica e cronaca giornalistica.

In cinquanta minuti di svolgimento, attraverso riproduzioni fotografiche, cortometraggi del tempo ed inquadrature attuali degli edifici della città raccontata, la Biagiarelli si relega a ruolo di delegata dei partigiani, riconsegnando alla memoria collettiva la storia della resistenza, nello specifico a Fiorenzuola d'Arda e nelle colline vicine. 

E per quanto non usi il dialetto di quelle parti, ne diventa una di loro. L’attrice riesce a calarsi nella parte in modo così eccezionale, che sembra quasi l’abbia vissuta lei la guerra, che abbia combattuto con i diciottenni di Fiorenzuola. Ma anche esprimendosi in italiano, la sua esposizione è densa e qualitativamente d’effetto perché lascia trapelare totalmente l’impegno di uomini e donne che diedero tutto senza avere in cambio nulla, neanche il riconoscimento di aver dato l’avvio, inconsapevolmente – o forse no – alla democrazia. 





mercoledì 24 aprile 2013

Dubbi sull'autenticità di un Caravaggio: I Santi Quattro Coronati della ex Sant'Andrea in Vincis


Ci risiamo.
Come un tarlo che giorno dopo giorno crea nuovi buchi nel mio cervello cosicché ciò che si insidi in quegli spazi, sia sapere, mi son fissato su una nuova questione inerente all’attribuzione di un quadro caravaggesco.

Partiamo da un piccolo preambolo necessario a capire cosa mi ha spinto a raccontarvi questo piccolo mistero artistico.
Facendo ricerche per la mia tesi, mi son imbattuto in un restauro effettuato nel 1911 ad una tela che i documenti d’Archivio dichiaravano essere del Caravaggio.

Questa tela, raffigurava i Santi Quattro Coronati, individuabili nei quattro scultori cristiani che rifiutandosi di scolpire l’effige di Diocleziano in qualità di dio, furono martirizzati ed in seguito santificati, custodita nella Chiesa di Sant’Andrea in Vincis, chiesa demolita nel 1929, i cui beni custoditi furono trasferiti nel Museo di Roma.

Non conoscendo l’opera suddetta, - e si che sono un amante del Caravaggio e quando si tratta di lui perdo lucidità – ho iniziato a ricercare su internet l’opera in discussione, salvo scoprire che nessun risultato conduce chiaramente ad essa, anzi, ho dovuto cercare in maniera meticolosa, affinché mi apparisse la tela in discussione.
L’unica soluzione riscontrata che può essere presa per valida, è esplicabile in un parere dicotomico che tende ad attribuire l’opera, che di certo esiste, da un lato a Caravaggio dall’altro a qualche seguace.

Pare infatti che diversi manuali, tendano ad affidare la tela ad un caravaggista piuttosto che al capostipite della scuola. Tra i più quotati il Rustichino, lo Spadarino, il Salini ed il Valentin: tra le ragioni, la manifattura dell’opera non sembra essere eccezionale e degna del tocco del maestro; in più pare essere ricondotta agli anni Trenta del XVII secolo, quando ormai Caravaggio era morto e sepolto.

Fin qui niente di strano, se non fosse che nel Bollettino d’Arte, tratto dalla Serie 1907 – 1920, uno storico dell’arte del calibro di Lionello Venturi, avesse studiato così a menadito l’opera da non poter far altro che attribuirla all’artista di Caravaggio, con tanto di prove.
Nel suo saggio Opere inedite di Michelangelo da Caravaggio, egli descrisse innanzitutto l’opera, che lasciava presagire essere quella in questione:

Artista Caravaggesco, 1630 circa, SS. Quattro coronati,
olio su tela, Museo di Roma. 
Sull'altare maggiore della chiesa di S. Andrea in Vincis in Roma è un quadro rappresentante i Quattro Coronati, del quale poche fra le guide romane si sono accorte, e nessuna, nè antica nè recente, ha saputo indicare l'autore. […] La scena è dunque dei quattro santi legati attorno alla colonna, sopra un fondo, oggi oscurato, ma rappresentante in origine una nicchia limitata da due grossi pilastri. Ai piedi de' santi sono buttati un martello, un compasso, varie squadre e una testa marmorea, per indicare ch'essi erano scultori e che eran legati per non aver voluto scolpire un idolo a Diocleziano.”


Poi a seguire enunciò la prova schiacciante a poter affermare l’attribuzione a Caravaggio:

"Eppure la firma posta nel fondo, in basso e a sinistra, è leggibile, sebbene oscurata: MICHEL ANGELO / DA CARAVAGGIO DIP.
Oltre a ciò sin dal 1793 usci un'incisione del quadro, recante le seguenti leggende: Giuseppe Cades dis. | Pietro Bombelli inc. | SS. QVATTRO CORONATI MM. | Quadro di Michelangelo da Caravaggio | esistente in Roma nella V. Chiesa de SS. Andrea e Leonardo | della Compagnia de Scarpellini a Tor di Specchi | Alessandro Cartoni Console e Governatore | M . DCC . XCIII.”

Qual è tra le due, allora, la verità? È strano, mi chiedo, che una verità assoluta dichiarata da un'eccellenza del calibro di Lionello Venturi, che non era di certo il primo venuto, non sia stata presa per vera. D’altronde non è un’idea quella dello studioso, è una certezza. L’iscrizione esiste ed è stata trapelata. Però io non mi spiego come si sia arrivati a poter affermare per certo, nonostante l’iscrizione, che quello non è un Caravaggio.

Ne so troppo poco per poter espugnare una mia teoria a riguardo. Penso, per metodica, che magari l’iscrizione possa essere postuma all’esecuzione. O ancora che sia coeva all’esecuzione del dipinto, ma apportata da qualche caravaggesco che sperava così di farci qualche soldo. A tal proposito è risaputo come alcuni artisti amici del pittore, quale il Manfredini, tentassero di far passare per autentiche del Caravaggio le loro pitture, perché quelle dell’artista lombardo erano stimate esageratamente di più dei dipinti di qualunque altro artista del tempo.

Ma tenderei a non accettare questa ipotesi perché il dipinto fu commissionato dai parroci della chiesa (probabilmente su accordi economici pre - esecuzione), quindi non avrebbe avuto senso che l’autore in questione la dichiarasse del Caravaggio.  
Magari, probabilmente l’attribuzione data dal Venturi, all’artista celebre, è stata dimenticata. Ma sfido io che qualcosa del genere possa essere possibile.

Non conosco la verità circa questa opera, perché non conosco i criteri di valutazione che l’hanno condotta a quest’artista piuttosto che quello.
Però da inguaribile romantico preferisco pensare che l’ultima ipotesi sia ciò che davvero è successo; una cosa ovviamente è certa: mi conosco. E quindi già posso dirvi, che non finisce qui!




venerdì 19 aprile 2013

L’inadeguatezza dell’assetto museale italiano: Napoli e Pompei, oggi come cent’anni fa.


Leggendo l’articolo di denuncia del caro amico Stefano Cominale, che ha indagato a fondo circa le cause e lo svolgimento della cattiva gestione dei beni culturali nel nostro paese, a differenza dell’ottimale valorizzazione data dall’assetto museale dei paesi esteri (nello specifico la presentazione della mostra su Pompei ed Ercolano “Life and death in Pompeii and Herculaneum” ad opera del British Museum, vedi articolo), trovo altamente stimolante, apportare alcune segnalazioni datate in massima parte al 1917, ad opera di persone che hanno avuto a che fare in un modo o nell’altro con il Museo Nazionale di Napoli e con il sito archeologico di Pompei.

Forse scavando un po’ negli anni è possibile riuscire capire dove nasce o dove si sviluppa il gap evidente tra la gestione del patrimonio acquisito dagli inglesi e la gestione  del patrimonio di stirpe italiana, messo in evidenza nell’articolo postato nel Blog del Professore. 

Museo Nazionale di Napoli, foto conservata all'ACS di Roma. 
Ricercando tra le diverse scartoffie d’archivio per alcune ricerche personali, in diretto paragone tra Inghilterra e Italia, mi son imbattuto nella denuncia fatta dal Dottor Salvatore Mirone, studioso di numismatica, al Ministero della Pubblica Istruzione, al quale faceva notare come fosse dispiaciuto nel dover considerare l’alta efficienza dei musei anglosassoni (nello specifico il British Museum di Londra, l’Hunter Collection di Glasgow e l’Ashmolean Museum di Oxford) nel consegnare alla sua persona alcuni calchi di monete appartenenti all’antica Catana, previa sua istanza per motivi di studio, a discapito del Museo Nazionale di Napoli, che dopo numerose segnalazioni, non si era ancora accinto a consegnare alcun calco delle monete possedute.

L’allora sovrintendente Spinazzola, per conto del Museo, dichiarò più volte infatti, allo studioso, che non voler inviare quei calchi perché appartenenti a monete rarissime presenti solo presso la Collezione Santangelo; nonostante legge e regolamenti sui musei non vietassero assolutamente di ritrarre calchi dalle diverse opere. 


Museo Nazionale di Napoli, sezione,
foto conservata all'ACS di Roma. 
Rimanendo in tema “Museo Nazionale di Napoli”, proprio nello stesso anno si evidenziava presso le autorità competenti come l’incuria di custodi e vigilanti portasse ad una manomissione degli oggetti d’arte ivi siti, che sparivano letteralmente dalle bacheche poste nelle sale.

Un visitatore, a tal proposito dichiarava in una postilla informale diretta al Ministero: “Il Museo lo si vede più pulito si ma amputato e ridotto e non v’è settimana che non si chiudano al pubblico grandi reparti sotto la solita scusa di riassettare i locali! Noi con vecchie guide alla mano stiamo procedendo ad una severa e meticolosa inchiesta ed un giorno chiederemo conto di questo pubblico patrimonio!” 

Ancora, spostandoci a Pompei, il signor Levis, scriveva negli stessi giorni, una nota di rammarico alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti (organo centrale del Ministero della Pubblica Istruzione, addetto alla tutela, conservazione, valorizzazione delle opere d’arte ed alla gestione di musei e gallerie del Regno) dichiarando che, dimorando egli in America, era tornato in Italia con alcuni amici americani affinché questi potessero ammirare le bellezze della Certosa di San Martino, degli scavi di Pompei e del Museo Nazionale di Napoli. Ma il disgusto e la vergogna provate da lui ed i suoi amici, erano state di immane grandezza nel constatare l’effettiva situazione – definita d’anarchia - ed il grado di tolleranza alle infrazioni, presente in quei siti, dovute all’inadeguatezza ed all’inettitudine dei custodi.

Questi infatti, considerando che era assolutamente vietato l’accesso al “Gabinetto Pornografico” (probabilmente il Levis si riferiva agli affreschi delle terme suburbane)  già da parecchi anni, tranne che previa istanza al Ministero o alla Sovrintendenza, in cambio di una lauta mancia aggiravano il sistema e permettevano al visitatore di turno di potervi accedere.

Affreschi delle terme suburbane di Pompei
Non basta. Nonostante per l’epoca fosse fonte di grande scandalo che una donna ammirasse quelle pareti affrescate, sempre in cambio di qualche lira chiudevano un occhio sull’ingresso delle stesse.

Dall’altro lato il Ministero rispose, certo, ma non come ci aspetteremmo da una carica istituzionale il cui compito è la salvaguardia dell’arte nazionale. Da una nota a matita sullo stesso documento attestante la lamentela del signor Levis, si evince l’arrendevolezza del Ministero a quelle che potremmo definire “forze di causa maggiore”: “C’è del vero purtroppo! Ma non bisogna poi prendere le cose così nel tragico! Le mance le chiedono anche in Francia!”.

Biga di Spoleto, VI sec. a.C., bronzo,
Metropolitan Museum, New York
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Già, le mance. Cento anni fa sembrava che il problema di fondo fossero le mance e non il criterio di valutazione d’ingresso ad una zona vietata. E ‘sti gran cazzi se qualche anno prima una biga in bronzo di età etrusca scoperta in alcuni scavi a Spoleto prendesse il via verso il Metropolitan di New York riuscendo ad eludere l’Ufficio Esportazioni (e stiamo parlando di una biga in bronzo, non di un quadretto o una statuetta da camino), l’importante era salvare la faccia con gli altri paesi. Se le mance le chiedono in Francia, perché non Italia? Noi italiani non siamo mica stupidi, sapete?

Allora mi dico, forse è stato questo atteggiamento di nonchalance e noncuranza, o meglio, di massima cura verso aspetti superficiali a discapito di quelli più urgenti, a far si che si strascicasse questo modo di intendere la politica in arte, sino a permettere che sotto il Ministero Bondi crollasse una parete di una domus pompeiana.

Tornando all’articolo di Stefano, mi viene da pensare allora che non dovremmo poi così tanto rosicare se altrove sanno innalzare ai massimi vertici la roba che possiedono non per loro merito, ma che per loro merito è stata adeguatamente conservata.
Non dovremmo perché la verità è che noi non sappiamo farlo. Non sapevamo farlo cento anni fa e non sappiamo farlo oggi.

Solo che forse, a differenza di cento anni fa, quando fattori di carattere tecnico logistico permettevano la titubanza verso determinate decisioni, oggi non possiamo assolutamente addurre alcuna giustificazione al pessimo modo di applicare la politica di salvaguardia e tutela del nostro fortunato, meraviglioso, sublime, millenario e soprattutto immane, patrimonio artistico. 




martedì 16 aprile 2013

La centenaria sofferenza del Museo Regionale di Messina


L’idea per cui il nord abbia da sempre avuto una marcia in più sul sud, sin dai tempi dell’istituzione del Regno d’Italia nel 1861, ha sfiorato almeno una volta nella vita, più della metà del popolo italiano, da sempre.
Non voglio, non posso, giudicare se questo ragionamento sia solo un’impressione data dal gap evidente di disoccupazione e benessere tra regioni del Nord e del Sud (non è un caso che regioni come il Veneto o il Piemonte siano rappresentate da esponenti della Lega, che combattono per un federalismo delle regioni d’Italia), o siano trasposizioni della concretezza di tutti i giorni: in fondo è vero che il settore secondario, sul quale si basa l’economia del nord, sia economicamente più produttivo del settore primario, sul quale si basa l’economia del sud. 

In questo articoletto, non voglio assolutamente affrontare la questione, non ne ho forse le competenze; queste considerazioni personali mi son servite da preambolo a quanto sto per raccontare. Strascicando la premessa ancora per un po’, mi chiedo se oltre un secolo fa, la differenza tra nord e sud si sentisse come oggi, e quanto. Siamo stati tutti educati alla visione del contadino del sud che arriva a Milano e fa fortuna; ci hanno insegnato da sempre che le migrazioni non sono solo state estere ma anche interne, e solitamente dal nord al sud. Ancora oggi in film del calibro di Benvenuti al Sud, si racconta una realtà a senso unico.

Sul piano culturale, artistico e museale, senza dubbio le istituzioni nate nel nord alla fine dell’Ottocento, hanno da sempre risentito di influssi benevoli alla loro crescita, a discapito di quelli del sud, spesso lasciati in balia di se stessi e dei briganti. Cristo si è fermato ad Eboli, raccontava Carlo Levi. Forse Cristo si era fermato anche un po’ più su. A Roma probabilmente.

Infatti gettando uno sguardo di insieme al carteggio tra i diversi direttori dei musei e l’organo centrale del Ministero della Pubblica Istruzione, mi è parso evidente l’aspetto dicotomico volto ad elogiare i musei del nord, ben gestiti e spesso riordinati (i riordinamenti ai musei di Firenze, Bergamo, Roma, Ravenna, ad opera di Corrado Ricci, valente storico dell’arte, primo sovrintendente d’Italia e direttore generale delle Antichità e Belle Arti, sono cosa nota), ed ad additare quelli del sud, lasciati in balia di loro stessi, tra custodi corrotti ed incapaci di ottemperare una politica volta alla salvaguardia e furti di oggetti d’arte dalle teche delle sale.

Polidoro da Caravaggio, Adorazione dei Pastori,
1543, olio su tavola, Museo Regionale, Messina
Il caso del Museo Regionale di Messina (ex civico, ex nazionale), è forse il caso più emblematico di tutto questo discorso.
Questo museo,  nato nel 1806 in qualità di museo civico, era stato sito sino prima presso l’Archivio degli Atti Notarili, poi in locali predisposti dall’Università Regia di Messina.

Ma il notevole numero di oggetti d’arte confluiti nel museo dalle corporazioni religiose soppresse con la legge del 1866, spinse il Municipio della città a chiedere allo Stato, nel 1876, che questo adibisse un nuovo luogo, decisamente più idoneo ad ospitare l’ingente mole di beni custoditi.

Dal 1876, per oltre otto anni, puntualmente le suppliche del direttore Salinas giungevano agli uffici del Ministero, finché, in un clima di tensione dato dall’ingovernabilità di una struttura che non poteva tutelare e salvaguardare i beni ivi custoditi, nel 1884  fu predisposto il trasferimento della sede prima in un edificio di Via Peculio Frumentario, e sei anni dopo nei locali riadattati dell’ex - Monastero di San Gregorio.

La situazione post terremoto a Messina, il 29 dicembre 1908.
Questa sede fu progettata come la sede definitiva del Museo, ma la quiete dell’istituzione siciliana durò poco meno di vent’anni. Il 28 dicembre 1908 infatti, assieme alla gran parte degli edifici di Reggio Calabria e Messina, a causa del fortissimo terremoto crollò la suddetta sede, portando con sé nelle macerie beni di inestimabile valore.

Le operazioni di recupero furono senza dubbio tempestive per il tempo: in meno di due anni, tutti i beni sepolti furono “riportati alla luce” e restaurati con meticolosità: molti restauratori offrirono anche le loro prestazioni senza alcun compenso in cambio, consci che opere come il polittico di Antonello da Messina, custodito nell’ex omonima sala, andassero preservati a prescindere dalle aggressioni della polvere e dei calcinacci.

A. da Messina, Polittico di S. Gregorio, 1473,
olio su tavola, Museo Regionale, Messina
Quello che non fu affatto tempestivo fu il riassetto della sede del museo. Infatti per quanto Salinas, si fosse adoperato sin da subito affinché l’istituzione tornasse agli originari fasti, dal 1908 a seguire, l’intera collezione del museo civico (divenuto nazionale nel 1914) fu sballottata dalle casse contenitrici al deposito provvisorio presso l’ex filanda Mellinghoff, nei pressi della spianata di San Salvatore dei Greci, luogo adibito alla costruzione della nuova sede su progetto dell’architetto Valenti.


Dal 1908 al 1915, per oltre otto anni, il direttore Salinas aveva supplicato innumerevoli volte il Ministero di avviare le pratiche di costruzione della sede, ma le vicende burocratiche vinsero su di lui, che morì senza la serenità di veder realizzato il sogno a cui aveva dedicato la vita.
Solo a partire dal 1922, sotto la direzione del Mauceri, Messina visse un periodo di “presunto” ritorno  alla stabilità pre – 1908:  le sue opere d’arte furono catalogate nei registri inventariali e sistemate in locali che per quanto inadeguati, comunque lasciavano trapelare un’idea di riordinamento.

Ma per quanto attenuato, il problema era ancora un macigno non indifferente. Sino al 1939 nulla fu fatto per portar a termine la costruzione di adeguati locali in cui istituire il museo nazionale; fu solo in tale data che il Ministero dell’Educazione Nazionale, dette il via all’esecuzione di un progetto per adattare i locali del Monte di Pietà a sede conveniente per il Museo. Ma lo scoppio della guerra e l’entrata dell’Italia a fianco della Germania e del Giappone, nel 1941, bloccò ancora una volta i lavori e la volontà di consegnare a Messina una sede degna del proprio museo. 

Solo nei primi anni '80, dopo diversi progetti analizzati e scartati, fu considerata valida l’idea degli architetti Basile e Manganaro; un’idea che si è concretizzata in una sede valida solo nel 2005 ma che, però, ancora non è stata adibita a sede ufficiale del Museo Regionale.
Facciamo i conti. 2013 – 1908 = 105 anni. Che ne dite, basteranno per poter affermare senza dubbi che Messina ha patito sin troppo la colpa di essere una città dimenticata del profondo sud? 


domenica 14 aprile 2013

Un museo da riscoprire: Il Museo Nazionale dell'Emigrazione Italiana


Dal 16 al 25 aprile 2013, su tutto il territorio nazionale, si sarebbe dovuta svolgere la tanto attesa XII Settimana della Cultura, un periodo di nove giorni in cui il MiBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali) avrebbe permesso l’ingresso gratuito in quasi tutti i musei statali dello Stato, a dimostrazione della particolare attenzione riversata nei confronti di popolo sempre voglioso di sapere ed imparare, ma spesso impossibilitato o frenato dal prezzo del biglietto, in un momento di crisi che porta a centellinare anche la minima spesa. 

Così non è stato perché pare che la Spending Review abbia toccato anche la cultura. La mancanza di fondi nelle casse del Dicastero, ha spinto all'annullamento della programmazione. 
Eppure, per quanto sia strano da credere, ci sono musei visitabili gratuitamente anche al di là dell’istituzione della Settimana della Cultura: un esempio tra tutti è il Museo Nazionale dell’Emigrazione  Italiana, sito negli spazi della Gipsoteca del Vittoriano, il cui ingresso è sul lato sinistro dell’Altare della Patria, prima di affacciarsi alla Chiesa di Aracoeli.

Questo museo,  nato nel 2011, in occasione dell'anniversario dell'Unità d'Italia, raccoglie un nutrito numero di testimonianze regionali volte a raccontare l’esodo dell’emigrante italiano in terra straniera tra la fine del XIX ed i primi sei decenni del XX secolo; un museo nuovo quindi, all’avanguardia per quanto riguarda l’installazione di apparecchi multimediali che trasmettono interviste, cine-documentari, film e testimonianze degli emigranti e particolarmente attento alla fruizione da parte dei disabili, disponendo di pedane che collegano le diverse sale che poggiano su livelli diversi. 

Entrando nella prima sala, che presenta una visione d’insieme di quanto sarà esplicato nel lungo corridoio zigzagante che sbobina l’intera mostra, ci si trova d’avanti a documenti, fotografie e stampe, che raccontano per alcuni versi l’inaugurazione del Vittoriano e la sua evoluzione negli anni; da lì ci si avvia verso il salone unico, lungo e largo il necessario per ospitare teche di vetro che raccontano la storia della migrazione italiana. 

Nel salone, quindi, tale storia viene analizzata attraverso tre sezioni principali: il percorso storico di riferimento; il percorso espositivo regionale; il viaggio interattivo nell'emigrazione italiana.

La prima sezione ripercorre la nascita e lo sviluppo della grande emigrazione italiana dalla fine dell’Ottocento ai primi anni del Novecento, un evento caratterizzato dalla impellente necessità  di cercare lavoro. Questa si esplica attraverso tabelle didattiche, testimonianze audio (televisori al plasma installati sulle pareti, trasmettono a loop quanto detto precedentemente), foto, giornali e riviste d'epoca, frasi significative, oggetti caratteristici e date salienti.

A ragione di ciò, devo ammettere che ho trovato decisamente efficace l’allestimento di una parete che raffigurava una tipica partenza, con la gigantografia di un transatlantico sullo sfondo e la disposizione casuale di valigie tipiche dei primi decenni del Novecento. Non meno significative le testimonianze del Corriere della Domenica con le caratteristiche copertine a colori, narranti fatti di cronaca del tempo. In particolare quella del 5 maggio 1912, raffigurava la tragedia del Titanic: una dimostrazione di quanto fosse lenta la divulgazione delle notizie cento anni fa.

La seconda sezione traccia una geografia dell'emigrazione, grazie alla partecipazione degli assessorati, delle istituzioni e delle associazioni regionali, approfondendo le caratteristiche migratorie peculiari di ogni singola regione.

Numerosi sono i documenti, che riportano datazioni che variano dal 1900 al 1930: carte di imbarco, documenti di identità, effetti personali. Addirittura al centro del corridoio nel quale è esposta la seconda sezione, trova luogo una teca preziosissima, che custodisce il contenuto della tipica valigia dell’emigrante degli Anni Trenta: oggetti originali, intrisi di storia e vissuto. 

La terza sezione riguarda la figura dell’italiano all’estero e ripercorre la storica figura del Meucci, il creatore del telefono, mostrando in una teca un prototipo datato agli ultimi anni dell’Ottocento. Ancora, racconta il lavoro degli italiani nelle terre straniere, dall’Argentina ai paesi europei, mostrando particolare attenzione alla loro tipica arte di arrangiarsi e sopravvivere: al centro della sezione, è posizionato un grandissimo organetto degli inizi del Novecento, tenuto in ottimo stato, laccato e smaltato e raffigurante nei pannelli superiori, paesaggi e scenette.

Molto toccante ho trovato il tributo ai minatori di Marcinelle, paese belga, luogo del memorabile disastro avvenuto l’8 agosto 1956, giorno in cui crollò una miniera di carbone, che provocò 262 morti su 274, di cui 136 italiani. Diverse testimonianze analizzavano la questione, supportate da teche che ospitavano gli aggeggi tipici del minatore del tempo e la tuta di uno dei lavoratori di quella miniera.

Nel complesso ritengo che questo sia un progetto molto carino e ben fatto. Probabilmente però, la collocazione dell'ingresso, o l'istituzione recente, lo rendono tra i meno noti della città, a conti fatti, nella mia lunga permanenza  non ho potuto non notare (per ovvie ragioni) di essere l'unico spettatore del museo. 

E onestamente la cosa mi rammarica, perché trovo che questo museo sia capace di rendere il giusto rispetto all'identità di un popolo affascinante, speranzoso e di qualità, come quello italiano e solo per questo vale di essere visitato sia dagli italiani, che sono sicuro, conoscono ben poco della storia del loro popolo, sia dagli stranieri, che ritroveranno in quei nostri antenati, qualcuno che forse, in un periodo come questo, in cui il razzismo e la xenofobia sono ancora una realtà dominante, li avrebbe capiti e accettati senza remore.