giovedì 28 febbraio 2013

Una soluzione alla mancata affluenza totale alle urne: la campagna “Regala il tuo voto al primo impossibilitato che incontri per la strada”



Cita uno dei detti più conosciuti in Italia: “chi ha il pane non ha i denti, chi ha i denti non ha il pane”.
Con questo è mio intento sottolineare e delineare una questione correlata alla lettura della dettagliata analisi visualizzata in un articolo  del blog gestito da un caro amico, che rifletteva circa la validità di un sistema che non garantisse  l'effettiva affluenza degli italiani all'estero, alle urne: l’afflusso alle urne degli aventi diritto al voto in Italia.


Salta agli occhi un dato sconcertante, alla fine dello spoglio elettorale che ha decretato Pierluigi Bersani Presidente del Consiglio: solo il 75% (arrotondo per leggero difetto) degli aventi diritto, si sono presentati ad esercitare il loro diritto e dovere al voto, delineando nel complesso un calo dell’8% e del 6% alle precedenti elezioni di stampo nazionale. Il restante 25%, (1 su 4) no.


Il che fa rabbrividire se si pensi che non stiamo parlando solo di persone (purtroppo) impossibilitate a dirigersi verso i seggi (anche se da anni è attivo il classico “servizio di accompagnamento” di stampo mafioso promosso dai rappresentanti dei diversi partiti cittadini – io ti accompagno al seggio, tu mi dai il voto, per capirci), ma anche di ragazzi indecisi, genitori stanchi e adulti ignoranti, non acculturati, che non comprendono la necessità di eleggere il loro rappresentante.

Fosse servito,  una soluzione efficiente sarebbe stata riscontrabile nel promuovere una campagna del calibro “Regala il tuo voto al primo impossibilitato che incontri per la strada”: insomma, nella reticenza di immettere una ics su un partito piuttosto che un altro, decidendo alla fine di non votare, la soluzione più adeguata si sarebbe potuta riscontrare nel divenire delegati di un qualunque immigrato che magari è decisamente più informato e disperato all’idea di non poter esercitare un diritto che dovrebbe avere.

Forse la campagna avrebbe smosso e sensibilizzato all’informazione (in un periodo di crisi non si regala niente a nessuno, neanche in senso figurato. Piuttosto che dare il voto a te, che non ne hai diritto, lo utilizzo io), o avrebbe potuto davvero dar voce in capitolo ai migliaia di invisibili presenti in una nazione che paradossalmente è catalogabile come multietnica.

Se iniziassimo a vedere il mondo a 360° e non limitatamente, se iniziassimo a guardare con più attenzione ai nostri concittadini all’estero come propone Ottavio nel suo articolo, ed iniziassimo a considerare gli stranieri in Italia come propongo io in questa mia visionaria considerazione, senza dubbio avremmo un paese migliore, più competente, che sicuramente sulla carta si tradurrebbe in un governo che ci rappresenta più di quanto forse questo non possa riuscire a fare.

Rimedi per la cura all'invecchiamento direttamente dal 1915


In un mondo sempre più multimediale, la donna senza dubbio ricopre un ruolo importantissimo se non fondamentale solo apportando la sua presenza.
Non è un mistero che le pubblicità più seguite siano quelle che ripropongono top model e bellezze fulgide seminude o coperti da veli semitrasparenti, o che i programmi ed i film più seguiti siano quelli che prevedono nel casting donne statuarie, dai sorrisi smaglianti ed ammalianti.


Irina Shayk, modella di Intimissimi


La taglia 90 – 60 – 90 oggi è il canone standard per definire la bellezza, sempre contraddistinta da un make up perfetto ed un look sempre curato nei minimi dettagli. Tanto da dedicare interi programmi televisivi su trucco, parrucco e abiti (tipo Clio make up, seguitissimo su Real Time o Bucce di Banana su La7D, in cui Giusy Ferrè da consigli su abbinamenti e moda da seguire).

In fondo la donna è sempre stata la versione perfetta dell’essere umano, denudata dai più celebri artisti e laudata dai poeti di ogni epoca; è sempre stata il prototipo più vicino alla visione della divinità. Per quanto, la visione della figura femminile nel passato probabilmente non collima con quella più spregiudicata, femminista e fatale di oggi.

Ritrovandomi casualmente il Corriere della Domenica datato 15 – 21 febbraio 1915 (ebbene lavorare in Archivio porta a questi benefici elitari), mi son imbattuto in un articolo che mi ha dato modo di ragionare e poter paragonare a distanza di un secolo, il modo di curarsi di una donna, i consigli su trucchi e maschere, la via per poter sembrare più belle.

L’articolo, intitolato “La donna imbruttisce? Una società pro bellezza muliebre”, già apre a quella che era la visione della donna, improntata sul suo ruolo di moglie.


L'articolo di giornale suddetto, custodito all'ACS di Roma

Il primo interrogativo pare provenire dalla presa visione di una rivista americana: The family, che agli albori del 1915, lanciò un’evidente grido alle donne del continente oltreoceano, ricordando loro che la donna imbruttisce invecchiando (che strano che nessuno lo avesse pensato prima) e spingendo queste a pubblicare (in un periodo di presa consapevolezza delle proprie capacità e dei propri diritti) migliaia di opuscoli densi di consigli su come limitare la bruttezza, o meglio preservare la bellezza con l’avanzare dell’età.

Ivi, particolare attenzione veniva concessa all’igiene e ad una dieta ragionevole, alla pulizia ed all’esercizio; importante si rivelava anche respirare aria pura e dormire il giusto necessario. Probabilmente per noi sembrano affermazioni scontate, ma contestualizzandole ad un secolo di distanza, in un periodo in cui non vi era una fluida fruizione e circolazione di opuscoli e libri, ed il parere di un dottore costava sin troppo, consigli del genere erano da carpire come oro colato.

Anche per le rughe veniva apportato il giusto metodo per evitare che queste si manifestassero il prima possibile e solcassero i visi perfetti delle lettrici. Era auspicabile che la donna non contraesse il viso esageratamente in risa e smorfie ed imparasse a regolarsi sin da bambina: la lungimiranza in questo caso si sarebbe rivelata l'unica via di salvezza. Ma quale bambina di sei anni, pensa a non smorzare un sorriso pensando all'effetto che questo gesto si possa ripercuotere a distanza di quarant'anni?

Ancora, i vestiti attillati, le scarpe ed i guanti stretti non erano consigliati, poiché impedivano la circolazione del sangue in modo fluido, che si tramutava in un colorito del volto anomalo.
Anche la cura dei capelli non veniva lasciata al caso: la spazzolata veniva descritta come l’operazione principale ad ottenere una capigliatura perfetta; seguivano consigli sulla giusta acconciatura al fine di favorire il giusto equilibrio tra viso, fronte e capelli e sulla miscela migliore (l'equivalente dello shampoo dei giorni nostri) da apportare ai capelli durante il lavaggio: no all’ammoniaca ed ai saponi, si al succo di limone nell’acqua.

La cosa divertente è data dal riscontro delle cose che assolutamente andavano evitate per poter apparire sempre belle a prescindere dall’età, per cui era sempre meglio non asciugarsi con asciugamani grossi e ruvidi ed evitare di adoperare per il viso acqua troppo fredda. 
Ma piuttosto, udite udite donne del XXI secolo! Pare che applicare una maschera di farina di avena polverizzata, mescolata ad un po’ d’acqua, per tre volte a settimana rendesse la pelle vellutata; metodo sicuramente preferibile al lavaggio del viso con acqua e sapone, che veniva fortemente sconsigliato.
E allora fermi tutti! La domanda qui diviene lecita: se la pratica di una lavatura sobria era assolutamente deleterea, da dove deriva il luogo comune per cui la donna più bella è quella acqua e sapone?! 

lunedì 25 febbraio 2013

Quando capisci che è ora di partire


Ore 19.03 del 25 febbraio 2013.
Qui nel Paese che mi ha visto nascere e crescere, si stanno svolgendo gli scrutini delle votazioni da poco ultimate per eleggere il prossimo Presidente del Governo, che manterrà la carica, ci si auspica, per l’intero mandato di 5 anni.
Non starò qui ad enunciare programmi e delineare profili dei candidati: credendo che il mio blog sia visitato da italiani, considero che tutti più o meno sappiano quali sono le problematiche affrontate da ogni coalizione (dove c’è). E poi ad elezioni finite non avrebbe senso. Mi limito solo, al fine di creare una visione generale della cosa, che i quattro candidati con le credenziali più affermate per salire al potere sono Beppe Grillo con il suo Movimento a 5 Stelle, Pierluigi Bersani con il PD, Mario Monti con la Lista Civica e Silvio Berlusconi con il PDL.
Ora, in queste ore di ansia, - ricordo che nel 2007 son stato sveglio sino alle due di notte in attesa di saper chi avesse vinto – la problematica che attanaglia l’Italia morale, quella costruita bene, è data dagli istant pool che vedono una lotta alla pari, bloccata a valori intorno al 30% per PDL e PD, seguiti da un ottimo e sicuramente sorprendente 25% del Movimento ed un 10% scarsissimo della Lista Civica Monti.
Una percentuale del genere dimostra due cose, una concreta, l’altra ideologica. Sul piano concreto l’idea che queste proiezioni si tramutino nell’effettiva realtà dei fatti, porterà ad immaginare un’ingovernabilità del Paese soprattutto al Senato; sul piano ideologico porta a riflettere sulla superficialità con cui il popolo italiano, manifestandosi nella percentuale del 30% (in parole povere 1 italiano che ha votato su 3), tende a non considerare gli insegnamenti dati dalla storia, votando il PDL, quel partito governato dall’ex Presidente del Consiglio Berlusconi che, aveva dato le dimissioni due anni fa dopo aver portato sul lastrico il paese e che, approfittando dell’antipatia di cui si è macchiato il governo tecnico di Mario Monti a lui susseguito, si è ricandidato confermandosi come il salvatore della patria.
Su facebook leggo il malcontento dei miei amici coetanei, stralcio di una società intelligente, acculturata e cosciente, che non si spiega le ragioni di un fenomeno così incompatibile con la speranza di dare un assetto innovativo al paese.
Ormai ovunque leggo stati di persone che vogliono andare via, espatriare. Perché anche se dovesse vincere il PD e Grillo dovesse avere una forte rappresentanza in Parlamento, comunque un carico di voti così abbondante al PDL non è accettabile.
E leggo di Alessio, che vuol partire in Francia e di Giulia che organizza pullman per Cincinnati, negli USA.
E leggo di Donato che vuol andar in Russia, che se ha accolto Depardieu accoglierà sicuramente tutti e di David, che vuole colonizzare una delle Isole Svalbard nel Mar Glaciale Artico.
E guardo insistentemente la nuova foto che ho imposto come immagine profilo, e che riposto a seguire qui, che mi crea turbamento perché credevo che l’idea del vecchietto che vota per far mantenere una falsa promessa (la restituzione dell’IMU 2012) fosse se non estinta, fortemente limitata ad un nucleo ristretto e che mi da la riconferma, facendomi cadere da un pero molto alto, che l’unica soluzione per sentirsi davvero liberi di essere ciò che si vuole essere è andare via.
Il più lontano possibile. 


Quando non esistevano restauratori meridionali


Smettiamola di confermare puntualmente il luogo comune che il Sud Italia durante i secoli d’oro di Rinascimento e Barocco non abbia goduto della stessa esplosione artistica che ha coinvolto il Centro e Nord Italia.
Insomma, proprio in due articoli (Restauri al Tintoretto e Relazione su un Veronese) ho discusso (per quanto in modo indiretto) di due opere del calibro di Veronese e Tintoretto, presenti oggi presso la Pinacoteca di Bari, un tempo collocate nella Cattedrale di San Sabino a Bari. Dimostrazione evidente che due grandi artisti veneziani (e ricordiamolo che i veneti assieme a romani e fiorentini hanno permesso la massima evoluzione dell’arte nel secolo XVI) non hanno mai snobbato l’idea di dover lavorare nel Sud Italia, in una città poi, ponte tra due culture diverse, grande porto commerciale e apportatrice di novità artistiche decisamente rilevanti.

Forse, disciplinati verso una via che vede i Sabaudi come salvatori delle terre e del popolo borbonici, in un tempo in cui il Regno di Piemonte e Sardegna era sicuramente industrialmente più sviluppato di quello delle Due Sicilie (ma badate bene, la prima tratta ferroviaria in Italia è stata la Portici – Napoli e la Reggia di Caserta godeva di un ottimo impianto fognario e di idraulica a discapito di Stupinigi o Torino), siamo sempre stati educati a pensare che nel momento in cui Roma, Firenze, Venezia, Parma, Bologna, “rinascevano”, Bari, Lecce, Napoli o Palermo dormivano.

Ora, chi studia arte sa che non è così, che Napoli nel XIV secolo ha goduto di Antonello da Messina e degli apporti dati dai fiamminghi, che Lecce nel XVII secolo è stata la patria di un Barocco esagerato, arzigogolo, quasi rococò; ma chi si interessa alla storia dell’arte in modo amatoriale purtroppo lo ignora.
Eppure, con mio sommo dispiacere, nonostante il mio schieramento verso una visione improntata alla riscoperta ed alla rivalutazione del Sud Italia, ho dovuto riscontrare un appunto negativo, - confermato da ricerche lunghe mesi e mesi - nel fatto che, nei primi del Novecento, proprio il Sud Italia non ha sfornato personalità eccellenti nel campo del restauro.

Se già mi avesse shockato l’idea di aver notato come il buon 90% dei restauri approvati alle tavole ed alle tele custodite nelle chiese e nei musei, riguardasse l’Italia centro nordica, (nel Sud Italia, a parte numerati casi in Puglia e Campania, non esistono documentazioni sufficientemente soddisfacenti sui restauri agli inizi del XX secolo), la costatazione che quei pochi restauri del sud, fossero stati commissionati a restauratori fiorentini, romani o del Nord Italia, costretti loro malgrado ad attraversare la penisola per poter effettuare le operazioni di restauro necessarie, mi ha letteralmente amareggiato.

Pare, dai documenti analizzati, che solo un certo Pasquale Chiariello, napoletano ed operante nel territorio campano, fosse considerato un buon restauratore al pari degli altri. La cosa non mi lascia poi così tanto stranito se ragiono sul fatto che la prima scuola di restauro fu istituita da Giacomo di Castro proprio a Napoli agli inizi del Settecento; ma il fatto che fosse l'unico del Sud Italia degno di stima, questo si che mi stupisce in negativo. 

Perché poi, su Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria e Molise, vige il silenzio più assoluto. Probabilmente a dimostrazione che a cinquant’anni dall’Unità d’Italia sotto i Savoia, le teorie della superiorità del Nord fossero ancora evidenti e persistenti. In maniera così preponderante da inglobare in questa visione unitaria anche l’attività formativa dei restauratori operanti sull’intero territorio.  

Documenti dell'ACS di Roma


sabato 23 febbraio 2013

Giocando a far i grandi



In tv ultimamente, sui nuovi canali Mediaset, vengono ritrasmessi programmi di dieci – vent’anni fa, per il piacere di una generazione nostalgica come la mia, che ha vissuto nel trapasso alla successiva, un cambiamento così radicale da non vedere la nuova come papabile erede.
Insomma a conti fatti noi degli anni ’80 eravamo abituati a vivere l’infanzia in modo del tutto differente dalla generazione supertecnologica nata negli anni ’90. Noi eravamo quelli che non portavano in tasca un cellulare a dodici anni quando si usciva con gli amici e la mamma preoccupata doveva attendere il nostro ritorno alle nove di sera, facendo la calza e gettando, tra una maglia e l’altra, un occhio furtivo all’orologio, che come nel più classico dei casi quando sei impaziente che arrivi l’ora che tanto attendi, sembra spostare le sue lancette in senso antiorario anziché il contrario.
Tra i diversi Tira e molla e Mai dire Goal, in un momento in cui ero chino a spulciare ed acquisire un nuovo modo di intuire l’arte contemporanea, analizzando la metodica del buon vecchio caro Bonito Oliva, la tv, volume al minimo indispensabile a renderla “modalità sottofondo”, iniziò a trasmettere una sigla che attraverso le orecchie navigò alla velocità della luce sino al cuore, che riconobbe appartenere alla fiction Caro Maestro, datata 1995 con Marco Columbro ed Elena Sofia Ricci. 
Nel 1995 avevo dieci anni e ricordo che aspettavo con ansia quelle puntate perché quella fiction mi entusiasmava. La adoravo. Alzare gli occhi dal Bonito Oliva (cosa difficile da fare) e puntarli sullo schermo che rivangava anni di piacevoli ricordi e prime emozioni, mi trasmise una sensazione piacevole ai sensi, lacrimevole addirittura se vogliamo, perché come una bomba azionata, esplose in me una marea di ricordi legati all’infanzia nel mio paese di origine. Un’infanzia fatta di sole, terra, mare, aria e povertà. Quella povertà che è stata la mia salvezza perché ha stimolato la mia fantasia e creatività, quando la pistola che i miei non potevano comprarmi diventava due mollette disposte a “L” e il mio superliquidator era una bottiglia da 2 litri con un foro sul tappo!
 I ricordi più cari mi hanno rimandato alle estati da bambino, quando il sole cuoceva, la strada scottava e noi non ci si stancava uguale di rimanere a giocare a palla, sognando il mare. Quando la mamma ci intimava di salire al tramonto, quando ‘fanculo computer, Playstation e Xbox, un Super Tele costava duemila lire e una bustina di figurine panini poco più di duecento ed eri felice per una settimana: finché il Super Tele non ti veniva sequestrato dalla vicina o si forava sui vetri di una bottiglia di birra frantumata al lato della strada. Eh, ma inutile prenderci in giro, tutto questo “intender non lo può chi non lo prova”.
Le estati più dolci le ho passate giocando al classico “guardie e ladri” o “mamma e papà”. Ci son cresciuto giocando a mamma e papà! Tutti i bambini della mia generazione hanno giocato a mamma e papà per la strada almeno una volta durante la loro infanzia! Ah quanto era duro simulare il signor Dario che andava a lavorare mentre la mamma Giusy e la figlia Silvana (paradossalmente Silvana ha un anno in più di Giusy, eppure si accontentava di lasciare il ruolo di leader alla seconda) restavano a casa a far i servizi. 
Andar a lavorare per me coincideva con restare almeno un quarto d’ora dietro il muretto del palazzo, in panciolle ad attendere di poter tornare a casa (il muro a cinquanta metri di distanza) da moglie e figli. Ed era terribilmente noioso rimanere lì, sotto il sole di luglio, seduto al gradone e rigirarsi i pollici. A volte lanciavo un urlo alla mia consorte “Posso tornare!?” e lei mi rispondeva puntualmente “Non ancora! Aspetta!” e lì il borbottio prendeva il sopravvento. Finché guardandomi intorno in un età di curiosità e scoperta, notavo i papaveri non ancora dischiusi, che nel loro bozzolo verde rugoso si affacciavano al marciapiede e iniziavo a strapparli e ad aprirli per scoprirne il colore della corolla.
“Ora puoi tornare!” mi veniva gridato ad un certo punto ed io lì, strappavo quattro fiori alla rinfusa, e li portavo a mia moglie che mi chiedeva come fosse andata la giornata lavorativa.
“Un inferno! Non ho avuto un attimo di pace!”, recitavo, io che ero stato lì a borbottare e raccogliere bozzoli di papavero per un quarto d’ora.
 E oggi accade puntualmente che i ricordi favolosi di un tempo andato che non tornerà mai più, ma che hanno deciso chi sono oggi e che riaffiorano in modo piacevole al grido di un bambino, alla sigla di un programma, alla visione di una biglia di vetro, accendono in me la voglia di tornare a casa, di rivedere gli amici di infanzia, di tornar a far il padre che andava a lavorare dietro il muretto di casa.

Perché giocavamo a fare i grandi nel 1995. Non capendo che forse, avremmo dovuto giocare qualche minuto in più a fare i bambini.

giovedì 21 febbraio 2013

Anna Karenina: ragionamento sulla trasposizione cinematografica di uno dei più grandi classici per eccellenza


Navigando su facebook in un tedioso pomeriggio pugliese di pioggia, mi son imbattuto in un articolo, che mi ha colpito per l'argomento trattato. Il sito ScrivendoVolo, ha infatti scritto a riguardo della trasposizione cinematografica (l'ennesima) del grande classico Anna Karenina (vedi articolo).
Dopo aver divorato l'articolo, -devo ammettere che il sito offre delle critiche sempre eleganti e soddisfacenti, - son sorti in me forti dubbi a riguardo di quanto letto. 
Non sono un cinefilo e credo che la cosa comporti una sorta di schieramento a priori nei confronti del libro, ma a parte questo, trovo altamente pericoloso il confronto, il paragone, della lettura del testo alla visione successiva del film (NON E' ASSOLUTAMENTE ACCETTABILE IL CONTRARIO). E non solo nel caso di Anna Karenina, ma nel caso di ogni libro.
L'idea di dover conformare la propria immaginazione e le proprie impressioni, a quelle del regista di turno non è di certo allettante. Soprattutto perchè a volte, purtroppo, si cade nella convinzione sbagliata, dopo aver visto la trasposizione cinematografica di un libro al quale siamo legati, che l'analisi che abbiamo fatto su di esso non sia corretta e la realtà, la volontà dell'autore del libro, fosse quella che ha saputo interpretare il regista.
Beh, non è sempre così. Non sempre quello che ci viene propinato è una verità assoluta. 
Se non vogliamo accettare una visione data che non corrisponde a quella che abbiamo creato noi, possiamo
rifiutarla e rimanere convinti di avere ragione.
E forse, magari la soluzione sta nel ricordarcelo ogni volta.

Cos'è l'arte? Sondaggio stolkeriano ad un campione di studenti profani in materia



Impara l’arte e mettila da parte.
Né arte né parte.
E’ arte di pochi.
I suddetti, sono solo alcuni degli innumerevoli modi di dire legati all’arte. Beh, inutile negarlo, l’arte fa parte di noi, del nostro vissuto giornaliero e si insinua di volta in volta nel nostro linguaggio, nelle nostre azioni, a volte senza che noi ce ne accorgiamo.
Ma in fondo l’arte cos’è? Vi dirò, ho serie difficoltà a definirla io per primo che son competente in materia, forse perché non è definibile il concetto in una mera dicitura.
L’idea di riuscire ad etichettare l’arte sotto un esempio o una definizione, ha portato a chiedermi qual è il modo in cui viene concepita questa, da chi è profano in materia. È divertente constatare - mi son detto – qual è la visione della gente che non vive l’arte come una passione primordiale, come fonte della sua formazione ma che comunque la accoglie costantemente nella propria vita.
Allora, munitomi di foglietti, ne ho distribuiti alcuni ad un campione di studenti di materie scientifiche e umanistiche, amici miei. Su ogni foglietto la domanda era la stessa per tutti: Cos’è per te l’arte?
La cosa che mi è saltata subito all’occhio dalle prime risposte, è stata la stretta correlazione tra il concetto dell’arte e la propria formazione di base.
“L’arte è ciò che ci suscita emozioni. L’arte è rimanere davanti ad un’opera a bocca aperta ma anche non riuscire a capire e star lì ad interrogarsi su cosa rappresenta. L’arte è tutto ciò che sconvolge nel bene e nel male”.
Da queste parole, scritte da una studentessa di Scienze della formazione primaria, non è difficile connotare la sua visione dell’arte quale mondo fatto di emozioni ed interrogazioni, protagonisti della stessa metodica applicata all’insegnamento. Da quanto letto, la sua, sembra quasi un predisposizione ad approcciare all’arte attraverso un’analisi delle emozioni rivelate da un’opera, che siano queste positive o negative. Perché un’opera può piacere o meno.
“L’arte per me è tutto ciò che nel mondo si distingue per originalità, bellezza e fantasia. Può esser un dipinto, una costruzione o un’applicazione per pc. Anche questa per me è arte”
Il significato esplicato, è opera di un ragazzo laureato in Informatica.  La sua visione scientifica del mondo, lo porta a delineare l’arte come qualunque cosa che si distingue dalla massa, che ha i requisiti di bellezza e fantasia, ma ancor prima di originalità. E non è strano constatare addirittura che anche la creazione di un’applicazione per pc è arte, quasi come se coesistesse un rapporto di fusione tra artigianato informatico ed artistico.
Quando mi ritrovo a leggere ciò che ha scritto una studentessa di Scienze Politiche, amante della natura e legata ad una concezione della vita improntata all’attivismo di ogni genere, leggo nelle sue parole la dicotomia del suo essere. Fragilità, quando in forma poetica scrive “Arte è emozione, provare emozioni dinanzi a qualcosa di realizzato con nessun intento se non quello di esprimere bellezza. Arte è vedere poesia in qualunque cosa”, e determinazione e convinzione che ciò che si fa si tramuta in ciò che si è quando continua, senza riuscire a dimenticarsi della sua passione “Arte non è politica, tranquillo! Purtroppo, o per fortuna”.
Ancora, da altre risposte mi è stato possibile assoggettare il concetto di arte al modo di essere della persona che lo delinea, la cui parola chiave del significato apporto diventa il termine emozione, lo stesso che può essere facilmente configurabile come parola chiave del proprio modo di fare.
E così quando leggo il significato che ne da una ragazza che studia Fotografia, sensibile e sempre attenta ai particolari e alle emozioni suscitate, non mi è difficile riconoscerla nelle parole che adopera per descriverlo: “Per me l’arte è un’espressione di se stessi, un’emozione trascritta su un quadro o scolpita sulla creta. È lo specchio di chi la crea”; tantomeno riconoscerne la visione accademica di una studentessa neodiplomata, evidentemente ancora bloccata in una visione data dagli insegnamenti di un libro istituzionale: “L’arte è libertà di espressione dello stato d’animo dell’artista, perfezione e imperfezione allo stesso tempo” che si riscontra ancora, - con mia visibile meraviglia - in una semplice trasposizione articolata del concetto, che par essere tratto da un saggio critico per l'eleganza con cui è stato compilato. Leggendo "Per me l'arte è l'insieme di idee articolate che si codificano in immagini in movimento e che tramite la giusta combinazione donano un senso, una forma, un ritmo e un significato", scritto da uno studente del Dams, per quanto ho modo di poter capire come egli intende l'arte in generale, non mi è chiaro constatarne la visione soggettiva che egli ne da. Non si parla più, qui, di espressione, meraviglia, sconvolgimento e coinvolgimento, ma di un mero modo di vedere l'arte concedendo a questa un significato il più oggettivo possibile, che forse risponde più alla domanda Cos'è l'arte, che alla domanda Cos'è PER TE l'arte
Infine ho piacevolmente notato come l’emozione è una costante applicata al concerto d’arte. E non si tratta mai di un termine inserito a casaccio nel contesto. La visione dell’arte di uno studente laureando in Lettere lo dimostra bene. Egli descrive l’arte in maniera così affascinante: “L’arte è l’espressione degli ideali umani di un determinato periodo storico, che grazie all’architettura, alla pittura, alla scultura, alla letteratura, alla filosofia e alla musica, rimarranno eterni nelle generazioni future. È inoltre, l’espressione dell’anima e dei sentimenti, è una manifestazione di problemi universali a cui, però, non darà mai risposta.”
Leggerne una visione filosofico – classica non è difficile. D'altronde come testato, la sua formazione lo prevede. È ovviamente encomiabile e degna di stima l’attenzione delicata alla descrizione dell’arte come manifestazione di problemi universali a cui non questa darà mai risposta. Non ci metto la mano sul fuoco sull’interpretazione di tale affermazione, ma senza dubbio ho pensato all’iconografia legata alla religione: manifestazione di “problemi” a cui non è possibile dare risposta, perché l’epifania non è una realtà approvata.
 Alla luce di ciò mi è più chiaro il problema di base. È altamente evidente che non è assolutamente chiaro né scontato poter delineare un concetto sull’arte che sia universale ed accettato unanimemente.
L’arte è parte di noi, vive di noi e noi viviamo di lei nel modo in cui la assimiliamo e  vogliamo accettarla nella nostra vita. Si mallea e si plasma in base ai nostri interessi; si forma in base a quello che salviamo e quello che rifiutiamo di ciò che ci offre e la metabolizziamo sino a conformarla similmente a quello che siamo e che ci caratterizza.
Ovviamente non vi nego che mi è stata posta a bruciapelo la stessa domanda.
Ragionandoci, immagino che anche la mia visione dell’arte, viva di quello che sono e di quella che è la mia formazione, per cui, inseguendo una visione idealistica e positiva, credo che l’arte in fondo  sia “L’insieme delle cose e delle idee che rendono il mondo più gradevole ai sensi”.
Ma non so quanto possa valere questa mia affermazione, dato che non è mai stata impressa su uno dei foglietti distribuiti che in modo pressante e stolkeriano, ho consegnato e preteso indietro, scritti di tutto punto.

PS dell'ultimo momento: 
Rivisitando la mia casella di posta elettronica, ho notato tra le mail ricevute, una derivante dal mio caro amico Stefano, laureato presso il Dams di Roma e girovago per il mondo. Dopo aver letto la sua connotazione di cos'è l'arte, non ho potuto non inserirla nonostante la chiusura del mio articolo, per cui l'ho postillata qui. Credo che ogni apporto dato ad una nostra pregressa conoscenza possa solo essere uno stimolo in più. Inoltre quanto sarà riportato senza dubbio può essere ascrivibile ad un nuovo ragionamento sulla validità dell'arte nel vissuto dell'uomo in quanto figlia della sua creatività.
Cito quanto leggo dalla mail:

"Potrei scrivere un bel po' di righe per definire il mio concetto d'arte. Non perché io sia un esperto, per carità, ma per il semplice motivo che una definizione di arte mi pone di fronte una variegata scelta di idee e temi da investigare con cura. 
Però mi limito alle poche righe che mi hai chiesto.
...E ti dirò: per me l'arte è il nulla. E no, non mi rifaccio ai Dadaisti e al loro concetto di anti-arte. Credo che l'arte sia il nulla, il niente, lo zero assoluto, l'opposto all'ovvietà. Ed è solo quello che ci costruisce sopra l'uomo a renderla linguaggio, forma, a renderla il tutto.
Sarà una grossa cazzata, ma questa è la mia modesta opinione."
E allora io mi chiedo: come ignorare che l'arte sia il nulla in un'articolazione di pensiero che alla fine pone l'uomo come unico protagonista anche dell'arte stessa?

martedì 19 febbraio 2013

Il monito di Previtali: triste realtà di un mondo poco filologico

“Cento, o anche solo cinquant’anni fa, ogni persona che si interessasse d’arte italiana, dilettante, storico o artista, teneva le Vite del Vasari sul comodino. Ricordo che Roberto Longhi mi raccontò che, negli anni trenta, avendo in una discussione storico – artistica fatto ad un professore tedesco una osservazione giudicata troppo elementare, si era sentito rispondere, con aria di offesa: “Ho letto il mio Vasari!” Oggi non si può dire altrettanto. Tramontata la concezione strumentale del Vasari come fonte pressoché unica per la storia del Rinascimento artistico italiano, esso viene ora raramente citato ed ancor meno letto; a dispetto degli innegabili progressi degli studi specialistici che gli sono stati dedicati, certi storici dell’arte percorrono l’intero cursus honorum senza averlo mai preso in mano, o sembrano ricordarne l’esistenza solo quando si tratta di stigmatizzare presunte tendenze “neovasariane”.

Lo stralcio citato è tratto dall’introduzione a Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri di Giorgio Vasari, che racconta duecento anni di storia dell’arte, duecento anni di cambiamenti sostanziali; duecento anni in cui avviene il passaggio dalla maniera greca di dipingere alla maniera italiana con Giotto; in cui si sviluppa il Rinascimento, sino a sfociare nel pieno Manierismo.

Il trattato, che analizza le vite degli artisti che si susseguono da Cimabue a Michelangelo, fu redatto due volte a distanza di diciotto anni: al 1550 è ascrivibile la versione torrentiniana, più scarna ma meno faziosa e banale, al 1568 la versione giuntina. Lungi da me definire la migliore, per quanto preferisca la prima.
Premessa la descrizione - decisamente irrisoria, ma destinata ad un’inquadratura generale  - dell’opera, apro le danze al ragionamento che ha suscitato in me questo inciso scritto negli anni '60 del Novecento.

Per un giovane studioso di storia dell’arte quale il sottoscritto, ad un passo dalla laurea che lo consacrerà dottore a tutti gli effetti senza scuse e senza giustificazioni per ogni lacuna di cui peccherà, è sicuramente stimolante e destabilizzante riscontrare come, un’assoluta verità quale quella denunciata dal Previtali (io di certo non posso metterlo in discussione, non ne ho la competenza), sia riscontrabile se non denunciabile in modo allarmante ai giorni nostri.
A cinquant’anni da quel pensiero, girando per le università, purtroppo è doveroso affermare che Le Vite del Vasari non è più un “libro da comodino” per gli studenti di storia dell’arte, né da bibliografia per i professori emeriti.

Io stesso apporto la mia testimonianza vergognandomi non poco di aver riscoperto il Vasari solo al primo anno di Laurea Magistrale, grazie alla perseverante volontà della professoressa Sylvia Ginzburg, che tenendo un corso monografico su Giulio Romano, ha cercato quasi ad ogni lezione di strappare dieci minuti all’artista manierista per dedicarlo alla lettura de Le Vite, stimolando la comparazione la versione torrentiniana  a quella giuntina in un vero e proprio lavoro filologico.

Prima di allora, nonostante abbia perseguito una laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali, non mi era mai capitato di imbattermi nel prezioso trattato, né di preoccuparmi di ricercarlo in libreria o in biblioteca per leggerne qualche pagina.
Che io non sia il primo e l’unico studente di storia dell’arte ad aver scoperto il Vasari troppo tardi (ma meglio tardi che mai), è cosa così nota da non aver la necessità di un riscontro statistico; piuttosto la mia riflessione va a quanto una simile mancanza si possa traslare all’atteggiamento verso la storia dell’arte quale costante viaggio itinerante alla riscoperta delle opere d’arte ecclesiastiche, museali e monumentali sparse in tutta Italia, in tutto il mondo.

Insomma, a conti fatti, la propensione a vivere con pigrizia l’esistenza di un testo così fondamentale senza mai trovar il tempo di leggerlo, così come i trattati di grandi storici dell’arte come Argan, Venturi, Procacci, Longhi, induce ad aver un simile modo di approcciare verso la riscoperta di musei mai vissuti e chiese e monumenti mai visti, giustificati dal “tempo che manca” e dal “ci sarà tempo per veder ciò che non ho ancora visto”.

Ricordo a me stesso, alla luce di ciò, che non ho ancora visto la Cappella degli Scrovegni a Padova; il Duomo di Milano; San Marco a Venezia; Palazzo Te a Mantova. Ci sarà tempo per veder ciò che non ho ancora visto, mi rispondo. Ma non ho neanche ancora visto i Musei Vaticani, qui a Roma, dove vivo da due anni. È il tempo che manca! Mi dico ancora.

La verità è che non ho poi così tante scuse: mi sto laureando in Storia dell’arte e di certo me ne vergogno di non aver spaziato così tanto nelle mie esperienze. Che cosa avrebbe pensato di me Cavalcaselle, che viaggiava col suo taccuino annotando e disegnando ogni sorta di opera d’arte che incontrava lungo il suo cammino e gli storici dell’arte di vecchia data, gli innominabili? Lui il tempo ce lo aveva per farlo, lo trovava.
Poi mi tranquillizzo pensando però, che avrò davvero tempo per vedere il più possibile. E me lo prometto. So che lo farò.

Intanto, ho sul comodino il mio bel Vasari, con la sua bella introduzione scritta dal Previtali, che sta lì, a ricordarmi che ci sono cose che fanno la differenza; che ci sono scelte che formano e scelte che informano. 
Ed è sempre lì quella prefazione, a non farmi dimenticare la qualità delle fonti, a stamparmi nella mente il pericoloso monito di tempi andati e la triste certezza del mondo di oggi.
Che vale per tanti forse, ma non per me.  



Le Vite di Giorgio Vasari 

domenica 17 febbraio 2013

La canzone mononota: e se l'Italia non è pronta..


“Il vincitore del 63esimo Festival di Sanremo è Marco Mengoni!”.
Così si conclude un festival forse perfetto se non per l’ultima, sopraccitata affermazione.
Beh si, decisamente la vittoria di Marco Mengoni con la sua canzone L’essenziale è stata una salvezza, ragionando sulle probabilità che potessero vincere i Modà (classificati terzi) con la canzone Se si potesse non morire, motivetto trito e ritrito che di sanremese ha tutto, dal testo mieloso alla musica sdolcinata, che preferiresti accendere una motosega pur di ricreare un rumore più gradevole.

Mengoni segue una scia che si riconferma da ormai troppi anni (vedi questo articolo): anche quest’anno il Festival della canzone italiana è stato vinto da un partecipante di talent show, per quanto bisogna ammettere che il televoto è valso solo per il 50% del giudizio ultimo che ha decretato la sua vittoria (25% dai voti delle serate antecedenti alla finale e 25% dei voti giunti durante la finale); l’altro 50% è stato composto dai voti della giuria tecnica.

La canzone indubbiamente merita nonostante il testo e l'arrangiamento non siano né nuovi né originali: vi dirò, ho dovuto attendere l’esecuzione post vittoria per capire che dicesse “bene” e non “pene” quando cantava “Beati loro poi, se scambiano le offese con il bene”. Anche se bisogna ammettere che la frase aveva senso in entrambe le versioni.

Per un festival che si è rivelato innovativo, - dalla conduzione della coppia Littizzetto – Fazio, alle tematiche affrontate, alla scenografia, - forse era però auspicabile che a vincere fosse un complesso che nonostante ripercorresse la cresta dell’onda da anni, si è sempre rivelato originale, innovativo e strabiliante nella composizione delle sue musiche, mai scontate e mai populiste.

Elio e le Storie Tese, si sono presentati sul palco già dalla prima serata, travestiti di teste gigantesche e atteggiamento sornione, - nell’ultima addirittura sono ingrassati magicamente di almeno 50 kg, perfetti nelle loro pance spropositate e nei doppi menti burrosi - ridicolizzando forse tra le righe, tutti quei cantanti che hanno prestato un’attenzione particolare più al look che alla canzone con cui si son esibiti e rendendo meno monotona e noiosa la loro esibizione.

Questa, con La canzone mononota, si è rivelata una vera e propria performance: Elio ha scimmiottato sul palco durante tutta la canzone, inglobando nella sua performance il pubblico e l’orchestra, con la quale si è persino accordato su una lunga pausa, e usando lo spazio intorno a sé come meglio gli poteva essere utile: ha persino trovato il tempo durante l’esibizione di riuscire a prendere un caffè seduto al classico tavolino da bar.
Con il loro atteggiamento, Elio e le Storie Tese, ci riconfermano ancora una volta la loro propensione a non prendersi mai sul serio nello stesso tempo in cui dimostrano professionalità. Un insegnamento che va avanti da 17 anni, quando portarono sullo stesso palco La terra dei cachi.




 Allora la canzone non fu capita, anche se ha goduto negli anni di grande fortuna critica. Un piccolo salto in avanti c’è stato con La canzone mononota, che è valso al complesso un ottimo secondo posto, (merito della spinta data dalla giuria tecnica), nonché il premio della critica dedicato a Mia Martini; ma il connubio primo posto Mengoni - secondo posto Elio e le Storie tese, dimostra ancora una volta che l’Italia non è  del tutto pronta ad accettare novità così eclatanti e destabilizzanti, soprattutto se riguardano un contest come quello del Festival della canzone italiana, che è sempre cresciuto nei luoghi comuni della famiglia riunita davanti alla tv e della canzone che per esser definita coerente con la kermesse deve contenere una certa struttura classica data da motivo orecchiabile e testo romantico. 

venerdì 15 febbraio 2013

L'importanza della ricerca: onore al merito a Umberto Conti


Il Tintoretto, pittore veneto del XVI secolo, ha sempre affascinato cultori dell’arte e meno, tanto da aver goduto sino ai giorni nostri di una strepitosa fortuna critica.
Come ho avuto già modo di ricordare in un altro mio articolo, lavorando alla mia tesi presso l’ACS (Archivio Centrale dello Stato), mi son imbattuto in un argomento affascinante a dir poco: i restauri del 1914 alle tele della Cattedrale di Bari.

Probabilmente la stretta connessione che intercorre tra l’interesse dimostrato verso una materia a me cara e l’amore incondizionato verso la mia terra, mi ha spinto a ricercare informazioni riguardanti le tele esaminate durante lo scrutinio cartaceo dei fascicoli.
Forte è stata la sorpresa nel constatare che la tela del Tintoretto, rappresentante un Miracolo di San Rocco, è stata riportata all’antico splendore grazie ad un restauro recente del 2010, effettuato da professori eminenti dell’Università di Bari (tra le quali configura una mia ex docente, Luigia Sabbatini, professoressa di Diagnostica Applicata ai Beni Culturali):


Tintoretto, Miracolo di San Rocco, XVI secolo,
olio su tela, Pinacoteca Provinciale, Bari

Tali operazioni, raccolte nel volume Il Tintoretto ritrovato. Storia, arte e restauro, a cura di Clara Gelao, che ne ha capeggiato i lavori, riconducono ad un modo di intendere il restauro sicuramente moderno, coadiuvato dall’utilizzo di macchine specifiche.
Un restauro che sicuramente ha goduto dell’ottimo restauro antecedente di cui si è responsabilizzato Umberto Conti, che tristemente, nella sua perizia del 29 luglio 1914, chiamato a restaurare quella tela insigne che ne sarebbe stata ancora argomento novantanni anni dopo, scriveva:

“ [… ] Il generale offuscamento e l’ingiallimento antipatico della pittura, non permettono che in maniera addirittura insufficiente di apprezzare la bella armonia del potente colorito. La parte centrale in specie, occupata dalle figure della donna e del giovane giacenti è un garbuglio tenebroso e indecifrabile, interrotto bruscamente dal bagliore di alcune luci livide in modo da dare l’impressione di un disgustoso effetto di luna. Per quanto la tela sia stata alquanto robustamente foderata, il colore minaccia di cadere in qualche punto, come già è successo lungo gli orli del quadro dentro una fascia di almeno dieci centimetri di larghezza. Il rosso mantello di San Rocco, per questa ragione è stato rabberciato alla meglio per mascherare le innumerevoli mancanze. La testa della donna già ricordata è alterata e contraffatta da ritocchi evidentissimi; così pure è rifatto l’angolo destro del cielo. Non così evidenti sono i ritocchi (che pur si scoprono dopo un attento e minuzioso esame) seminati in tutto il resto del quadro, perché il colore è ricoperto da uno spesso strato di cera che ha dato alla pittura una superficie levigata come un mobile, in contrasto con la tecnica rude e terribilmente avventata del Maestro.
Di più, ogni parte è cosparsa di un’infinità di piccoli grumi di cera che producono uno sgradevole effetto, pari a quello che fan le macchie del vaiuolo su di un ben volto.
L’essere ricorsi all’espediente fraudolento della cera è spiegato dal bisogno che certo fu da altri sentito di mascherare la sgranatura di colore; perché infatti (come da alcuni saggi da me eseguiti) la trama sgranata della tela è affiorata leggermente alla superficie del colore.
Converrà perciò assicurare e rifermare il colore; toglier via con estrema precauzione tutto l’imbratto di cera e di altre materie offuscanti la vasta tela; rendersi soltanto allora conto dei danni che effettivamente il dipinto ha subito in altri tempi, quando il colore naturale sarà tornato alla luce e quindi applicare quei rimedi che l’opportunità e il grande rispetto all’opera insigne ci suggeriranno.”
Il restauro ovviamente fu lodato dalla critica del tempo, che aveva un’ottima considerazione del restauratore tanto da affidargli operazioni di dipinti siti in periferia, nonostante la sua residenza fiorentina.
E sicuramente è grazie al suo apporto se la tela è giunta alle mani dell’ottimo staff tecnico dell’Università di Bari che ha saputo rinnovarne la freschezza.

Ma quindi mi chiedo: se non mi fosse capitato tra le mani il carteggio inerente a questo restauro, qualcuno prima o poi avrebbe mai saputo rendere giustizia ad un restauratore, mai citato, dimenticato, che ha contribuito alla storia della tela del Tintoretto, senza mai prenderne il merito?

Tutti i giornali elogiano i restauratori che hanno operato nel 2010, senza menzionare mai quel personaggio umile che si è prodigato affinché la tela continuasse a vivere. E questo mi fa pensare: mi fa riflettere sull'ignoranza (l'atto ad ignorare) dell'utilità di una ricerca approfondita, mi fa rivalutare l'importanza della ricerca meticolosa delle fonti, ma sopratutto, mi da la conferma del fatto che forse, di tante storie affascinanti, noi non ne conosciamo, idolatriamo e studiamo che solo la punta, come di un iceberg in mare aperto.

Relazioni del passato


Lavorando ad una tesi che vede l'analisi delle commissioni di restauro ai dipinti mobili agli inizi del '900, mi trovo spesso a dover leggere, scrutare e rivalutare documenti custoditi e cullati nell'Archivio Centrale dello Stato da decenni. 

Rileggendo i documenti inerenti ai restauri effettuati nel 1914, nella Basilica di San Nicola alla tela del Veronese La Vergine con Bambino, con Santa Caterina, Sant’Orsola e un orante, (oggi custodita nella Pinacoteca Provinciale di Bari), non nego che, per quanto affascinato dalle relazioni severe del restauratore Umberto Conti e dal clima austero creato da gente onesta, lavoratrice, cultrice di un sapere artigiano tramandato di scuola in scuola, il mio occhio si sia fermato sulla relazione dell’Ispettore Ornaghi, che, chiamato dalla Direzione Generale AA.BB.AA. del Ministero della Pubblica Istruzione a giudicare la riuscita di un restauro e a collaudarlo, scriveva in merito alla tela:

"Certamente i restauri subiti nei tempi passati furono così arditi ed irriverenti da far dubitare assai la pittura fosse opera di Paolo Caliari e non di un suo poco amabile imitatore. Quando però la parte ridipinta venne tolta, l’attribuzione del Frizzoni apparve più ragionata e sicura. Ben poco però rimaneva della pittura del grande veronese; gli scrostamenti erano numerosissimi, il viso della Vergine e del bimbo talmente danneggiati sì che l’integrazione riusciva impossibile. Ne tracce sicure rimanevano del vestito della Vergine e delle nubi sulle quali figurava portata.
Forse sarebbe stato più opportuna cosa dopo di aver reintelato il dipinto, operazione eseguita in modo lodevole, e dopo di aver tolto gl’impiastricciamenti poco rispettosi, essersi limitati assai nelle ridipinture ed usando esclusivamente tinte piatte pur accordantisi nella tonalità.
Invece si è tentato forse sotto la pressione dei proprietari di completare, ma nello stesso tempo con titubanza. Ciò portò naturalmente a degli squilibri notevoli. Così apparve il vestito della Vergine crudo senza le mezze tinte tanto care al Veronese, le nubi troppo pesanti perché senza modellazione, nel tempo stesso che la Vergine assunse una fisionomia senza vita e che non trova riscontro nei dipinti del Caliari. 
E questo tanto più si avverte in quanto le figure dei santi che stanno in basso certo perché meno danneggiate conservano tipi caratteristici di Paolo Veronese.
Certo è però che se si può fare una critica anche severa non è permesso dire che il restauro sciupò l’opera; l’opera era sciupata già ed il restauro odierno non è peggiore, anzi, sotto molti aspetti, migliore dei restauri antecedenti." 

P. Veronese, Vergine con Bambino, Santa Caterina, Sant'Orsola e un orante,
XVI secolo, olio su tela, Pinacoteca Porvinciale, Bari.

Non è difficile notare come relazioni di questo calibro appartengano ad un altro mondo. Un mondo fatto di critici e storici dell’arte del calibro di Venturi, Toesca, Cavalcaselle e Argan. Un mondo che avrebbe visto in modo riluttante le teorie di Sgarbi e che mai avrebbe accettato il dicastero di Bondi, Buttiglione o chi si voglia per loro. Ah cari vecchi Fiorelli, Orlando e Ricci che avete rivoluzionato l’Italia con la vostra passione! Che fine ha fatto l’amore per l’arte reso dalle parole della vostra generazione? Ha forse lasciato il posto a vacuità, massmediologia e incompetenza?



lunedì 11 febbraio 2013

Vito Acconci: la performance il gesto sessuale come opera d'arte


Parlando di come il corpo diviene esso stesso opera d’arte nelle performance, (vedi http://svirgolettate.blogspot.it/2013/02/la-performance-il-corpo-come-opera-darte.html), è giusto dedicare una considerazione a quello che è l’atto sessuale in questa forma artistica.
E’ difficile non riconoscere nella storia dell’arte un rimando diverso al vero e mero rapporto sessuale o al concepimento, quando si riscontra un soggetto erotico – amoroso.

Basti pensare alle incisioni e agli arazzi indiani inneggianti al Kamasutra, ai priapi degli affreschi pompeiani: sono esplicazioni di un messaggio chiaro, per nulla subliminale. Con la performance, però l’atto sessuale diventa metafora di un significato più complesso.

È quello che avviene nella performance di Vito Acconci per esempio, artista americano di origini abruzzesi.
Acconci nelle sue performance, lavorava al fine di  effettuare una ricognizione meticolosa proprio corpo, per poter raggiungere una sempre più approfondita conoscenza della sfera intima, come forma di auto-terapia.  La sua performance Seedbed, che egli eseguì a New York, alla Sonnabend Gallery nel gennaio 1972, consisté nell’esibizione della sua figura di un gesto masturbatorio, fino a raggiungerne l’eiaculazione, giacendo circondato di rifiuti in un angolo del museo. Al gesto si accompagnava un soliloquio; un colloquio intimo e disperato con il suo pene alla vista del pubblico.


V. Acconci, Seedbed, 1972, performance, Sonnabend Gallery, New York 

Il senso della performance aveva una connotazione di liberazione e depurazione: il performer, che simboleggia il seminatore, vive circondato da rifiuti, che sono essi stessi il male in quanto cose, scorie, non utili alla società. In una sorta di predica gestuale alla presa visione del pubblico che diviene esso stesso voyeur e discepolo, il seminatore versa il suo seme sulla terra contaminata dai rifiuti, quindi dal male, la libera da esso e la feconda apportando bene.

Con la fusione della performance nella Body Art, la tensione liberatoria si concentra unicamente sul corpo. Questo diventa infatti sorgente e parametro di ogni relazione con il pubblico e il territorio circostante.   

domenica 10 febbraio 2013

Joseph Beuys: la performance nel rapporto tra corpo e ambiente, come opera d'arte


Il corpo umano nella storia dell’arte ha sempre giocato un ruolo primario.
Se le prime forme d’arte erano rappresentazioni statuarie della Madre Terra fecondatrice, donne burrose con sederi e seni prosperosi, con l’evolversi dell’uomo da individuo appartenente a tribù ad individuo appartenente ad una società civile basata su regole e leggi, si fa sempre più preponderante l’importanza della raffigurazione dell’essere umano, prima nelle pitture murarie delle civiltà primordiali e poi nelle tavole, negli affreschi e nelle tele dei periodi a seguire.

Nel Novecento però, oltre alla rappresentazione del corpo umano, che continua ad essere un soggetto onnipresente nelle opere, con l’avvento della forma d’arte definita performance, è l’uomo stesso a divenire opera d’arte.
Opera d’arte "volatile", termine con cui si indica un bene non materiale: la performance solitamente non prevede ripetizioni è può essere custodita, conservata, tramandata solo tramite l’apporto di materiale multimediale (fotografie, video, tracce audio).

Una performance è data da una serie di azioni compiute in un tempo indeterminato e in uno spazio non circoscritto, attraverso le quali il performer, utilizzando a discrezione oggetti o facendosi aiutare da altre persone, che diventano performer anch’esse, intende lanciare un messaggio.
Senza dubbio una delle performances più significative del XX secolo, appartiene ad un artista tedesco – e la cosa non è casuale, perché la Germania diventa una delle nazioni in cui è più forte l’apporto di innovazioni artistiche dal secondo dopoguerra – tal Joseph Beuys.

Per quanto Beuys fosse stato caldamente invitato ad esporre in America, che lo riconosceva performer ed artista d’eccezione, egli si era sempre rifiutato, adducendo come motivazione che l’America non avrebbe goduto della sua figura finché non avrebbe ritirato le sue truppe dal Vietnam.
Nel 1974, finalmente l’epico incontro poteva avvenire; Beuys accettò di esporre a New York, nella sede della galleria tedesca René Block.

La performance I like America and America likes me cominciò già  all’aeroporto: all’arrivo Beuys si era avvolto per intero in una grande coperta di feltro e si era fatto trasportare con un’autoambulanza direttamente nella galleria sita in West Brodway.
Qui, visse per una settimana nello stanzone della galleria insieme ad un coyote, stabilendo con l’animale un approccio progressivo nel tempo.



J. Beuys, I like America and America likes me, 1974, installazione performativa, Galleria di Renè Block, New York 


Qui si pone la prima domanda: perché approcciare un coyote, avvolto da una coperta?
Il coyote è il simbolo dell’America; è uno di quei classici animali che caratterizzano il paese in cui abitano, un po’ come il canguro per l’Australia. Beyus con la coperta ed un bastone, i mezzi con cui proteggeva il suo essere dall’aggressione esterna, non necessariamente fisica quanto mentale, si aggirava circospetto nello spazio alla scoperta di un luogo diverso, di una nuova dimensione antropologica quale un nuovo paese, con una cultura diversa, un popolo diverso e regole diverse, misurando il proprio movimento su quello imprevedibile dell’animale.

La performance si concluse nel momento in cui il coyote e l’artista, America e Beuys ma anche natura e cultura, stabilirono un contatto. Solo allora Beuys si liberò della propria copertura, lasciando cadere coperta e bastone. E a seguire cominciò l’incontro di Beyus con gli artisti americani, coi gruppi femministi e con gli studenti, attraverso dibattiti e discussioni.

Il significato intrinseco della sua performance, stava proprio in quello che sarebbe accaduto dopo: permettere che l’arte prendesse parola, che il popolo ne prendesse coscienza e che la creatività potesse trovare il modo in cui fluire nella comunicazione sociale.