martedì 14 giugno 2016

Eva Amos: cuore e talento di una giovane pittrice russa

Eva Amos 
Ho avuto il piacere di ospitarla a casa per qualche giorno, di poter parlare con lei e capire la sua visione artistica del mondo e delle persone, guardare alla sua tecnica, conoscere il suo percorso.
Ho avuto il tempo di scoprirla, di poter condividere con lei qualche passione comune e del piacevole tempo libero. Tanto che ho deciso di dedicarle una svirgolettata, perché in un mondo fatto di cloni e artisti monotoni, lei fa sicuramente la differenza.

Eva Amos, pittrice russa classe 1986, nasce a Samara, nella Russia ai confini col Kazakistan, figlia di due artisti locali. Da questi impara tutte le tecniche utili a lasciare il segno su ogni sua creazione, tecniche che affina frequentando scuole settoriali sino a conseguire una laurea in Arte con indirizzo artistico artigianale.

Inizialmente molto accademica, ma sempre attenta alle novità provenienti da ogni parte del mondo e pronta a guardare al passato in maniera analitica per poterlo attualizzare, è in Italia, dopo il suo trasferimento avvenuto nel 2014, che Eva Amos – il cui pseudonimo è dato dalla fusione del suo nome e cognome “EvAmos” – acquisisce un suo stile personale che lei è usuale definire “un mix tra cubismo e pop art”.

Firma della pittrice 

Eva Amos durante i preparativi 
dell'evento vernissage Red Art Party
Uno stile che non è un copia-incolla delle due rivoluzionarie correnti artistiche, ma un adattamento originale di queste ai tempi nostri, in un’esplosione di colori che ricordano spesso e volentieri il vibrante fauvismo di Matisse e De Vlamink, se non altre volte, la dolcezza degli oli postimpressionisti.

Tanto che a meno di 30 anni, Eva Amos può vantare partecipazioni ed esposizioni non indifferenti a diverse mostre e vernissages dal 2015: nel febbraio dello stesso anno è grande protagonista della mostra Ritratti d’animo tenutasi allo Spazio Anteprima di Saronno; ancora nel giugno partecipa alla mostra Colore d’Amore nello Spazio Creativo Testaccio a Roma; nel settembre espone a Palazzo Cosentini per l’ART EXPO di Ragusa; ad ottobre al Teatro Centrale di Roma, alla sua personale FUORI CLICHE’; a dicembre partecipa alla collettiva ARTE e CONFRONTO nella Fondazione Mazzoleni ad Alzano Lombardo e ancora nel gennaio 2016 alla Collettiva B I A N C A N E R A presso l’Art Actory Cafè.

Ma non si può capire Eva Amos se non diamo uno sguardo alle sue opere, che non sono mai dei semplici oli o acrilici su tela.
Dipinti che raccontano una visione spesso dolce della vita e scevra da malignità, come nel caso della Bella Addormentata al mare, schizzo di acquerello del 2015, in cui viene ritratta una dolcissima bambina addormentata, sul cui corpo e viso riaffiorano i colori del mare e del paesaggio circostante, in una calda e armoniosa fusione di tutti gli elementi della composizione. 

E. Amos, Bella addormentata al mare, 2015, schizzo con acquerello, Collezione Privata., Milano  

E. Amos, Infinity, 2015, acrilico - nero di seppia - puzzle 
su tela, Collezione Privata, Milano. 
O ancora Infinity, la tela collage che raffigura l’unione amorosa di due persone, in una promessa perenne d’amore, attraverso il tocco delle loro dita a disegnare il simbolo dell’infinito. Una farfalla si poggia sulla mano di lei a simboleggiare la bellezza di un rapporto così limpido e i pezzi di puzzle raccontano concretamente la costruzione di un percorso tutto in divenire.

Ancora più particolarità però dimostrano le opere in cui traspare un occhiata di fondo alle correnti artistiche del passato: Lontano ha i colori delle serigrafie di Warhol e la matericità dei fauvisti più incisivi; Diva riprende nelle forme e nelle armonie cromatiche Kandinskij ma con connotazioni molto più naif e simboliche; Mood of the day riprende non di rado i colori e le linee spezzate che riecheggiano gli Espressionisti tedeschi così come i Futuristi italiani, in un equilibrio sottile di gioia e tristezza, colori vivi e colori cupi.

E. Amos, Diva, 2016, olio su tela,
Collezione Privata, Milano. 
E. Amos,Lontano, 2015, olio su tela,
Collezione privata, Milano.
















E. Amos, Mood of the Day,
 2015, 
olio su tela, Collezione Privata, Milano
E. Amos, Ritratto d'amore, 2015, olio su tela,
Collezione Privata, Milano.

Per saperne di più di lei vi allego i suoi contatti social, invitandovi a considerare questa ragazza che, dalla fredda Russia, è giunta in Italia con un forte desiderio di rivalsa, portando con sè tutta la sua bravura e il suo talento:


E. Amos, Pensieri e mela, olio, 2015, cioccolato e caffè su tela,
Collezione Privata, Milano.  

sabato 30 aprile 2016

Il Castello di Bracciano, tra Orsini ed Odescalchi

A poche decine di chilometri da Roma, verso nord, sul Lago di Bracciano si affaccia l’omonima cittadina celebre per essere una delle roccaforti delle nobili famiglie degli Orsini e degli Odescalchi, entrambe detentrici del titolo nobiliare di duchi di Bracciano.

Svettante sul colle più alto, si erge quello che è il monumento più caratteristico e importante di Bracciano, il castello, un vero e proprio esempio di edificio medievale atto alla vita di corte dei Signori e alla preparazione dell’esercito nell’armeria, costruito tra il 1470 ed il 1485 per volere di Napoleone Orsini prima e a seguire di suo figlio Gentil Virginio, su progetto di Francesco di Giorgio Martini.
Castello che dal 1952 è adibito a polo museale e aperto al pubblico per volere di Livio IV Odescalchi, - previo ingresso a pagamento, - e altresì anche adibito a location per matrimoni e ricevimenti.

Castello Odescalchi a Bracciano 

Le armerie, Castello Odescalchi, Bracciano
Visitare il Castello Odescalchi (la struttura prende il nome dalla famiglia che l’acquisì dagli Orsini nel XVII secolo) è una vera e propria esperienza extrasensoriale, perché permette un’autentica full immersion nella vita di corte che fu degli Orsini: già nelle armerie si può percepire quella che era l’adunanza alle armi durante i periodi di guerra. Per quanto infatti le stanze si presentino spoglie di ogni arredamento, la sensazione di vivere la storia bellica della famiglia è percepibile, attraverso lo svolgimento delle murature in orizzontale che aprono a vasti spazi, adibiti per l’appunto all’adunanza delle truppe.

Sala Papalina, Castello Odescalchi, Bracciano. 
Ma è nelle stanze del castello dove si svolgeva la vita di corte che si vive tutta la magia degli anni di splendore degli Orsini, famiglia potentemente ammanicata con papi e cardinali, tanto da averne esponenti essa per prima: Niccolò III (papa dal 1277 al 1280) e Benedetto XIII (papa dal 1724 al 1730). Nella prima sala che si percorre durante il tour museale infatti, è ben visibile la potenza di questa nobile famiglia, poiché in quella sala fu ospitato Papa Sisto IV Della Rovere, in fuga dalla Peste che stava mietendo vittime nella capitale (motivo per cui si chiama “Sala Papalina”).

La sala in seguito fu adibita a biblioteca del palazzo (ancor oggi all’interno di grandi biblioteche in legno con ante vitree sono custoditi manuali e libri molto preziosi) e presenta sul soffitto un ciclo di affreschi riproducenti l’Oroscopo delle nozze, dipinti dai fratelli Taddeo e Federico Zuccari nel 1560, per celebrare il matrimonio tra Paolo Giordano Orsini e Isabella de’ Medici.

F. e T. Zuccari, L’oroscopo delle nozze, 1560, affresco, Castello Odescalchi, Bracciano. 

Sala Umberto I, Castello Odescalchi, Bracciano
Seguendo lo stesso motivo, anche la seconda sala, la “Sala Umberto I” prende nome dall’importante personaggio storico che vi fu ospitato, il re d’Italia Umberto I, in visita nel 1900 al figliolo Vittorio Emanuele III impegnato in un addestramento militare nelle zone circostanti: la sala presenta un interessantissimo soffitto a cassettoni affrescato dalla bottega di Antoniazzo Romano (braccianese di origine) e un arredamento molto elaborato probabilmente riconducibile al XVI-XVII secolo, in legno colorato d’azzurro con intarsi dorati. Sul caminetto invece, un ritratto di Colbert, politico ed economo del XVII secolo. 

Sala del Trittico, Castello Odescalchi, Bracciano 
A seguire la “Sala del Trittico”, così chiamata perché ospita un meraviglioso trittico composto da una pala del XVI secolo e due ante d’organo probabilmente asseribili ad Antoniazzo Romano. Le due tavole raffigurano una emozionante Annunciazione della Vergine: nella prima è raffigurato l’Arcangelo Gabriele di profilo intento a portare la buona novella alla Madonna, che, nell’altro pannello, è intenta a leggere le sacre scritture. Nella pala centrale invece si manifesta la Crocifissione di Cristo, che presenta una non poco curiosa personificazione degli astri.

Antoniazzo Romano (attr.), Annunciazione, fine XV sec., olio su tavola, Castello Odescalchi, Bracciano 

Anonimo, Cristina di Svezia,
1640, olio su tela,
Castello Odescalchi, Bracciano
.
Proseguendo ci si imbatte nella bellissima “Sala del Pisanello”, chiamata erroneamente così per via dell’errata produzione del fregio del soffitto al noto pittore, per quanto lo stile pittorico non sia molto dissimile. Il fregio raffigura scene di vita quotidiana vissute dalla donna e ricorda non poco i cicli pittorici dei castelli del nord Italia (vedasi ad esempio Il ciclo dei mesi nel Castello del Buon Consiglio di Trento): cosa caratteristica tuttavia è l’associazione delle figure femminili a nomi di personaggi mitologici e biblici.

Dal punto di vista dell’arredamento e delle collezioni della famiglia Orsini, interessante è quella delle ceramiche, che si sviluppa all’interno di teche vitree lungo le murature della stanza: sono ammirabili vasi da farmacia, piatti e bicchieri e ogni sorta di particolare ceramica dipinta tra XV e XVIII secolo. Alle pareti invece sono affissi diversi ritratti, tra cui spiccano per bellezza e interesse storico quello di Innocenzo XI Odescalchi e quello di Cristina di Svezia in un meraviglioso abito regale, che visse in Italia dopo aver rinunciato al trono abdicando in favore del cugino Carlo X, e aver accolto la religione cattolica.

Sala di Pisanello, Castello Odescalchi, Bracciano 

Sala dei Cesari, Castello Odescalchi, Bracciano
Ancora la “Sala dei Cesari”, che ospita ad onor del nome che porta, alcuni busti dei più importanti imperatori romani, in marmo bianco peperino, databili al XVII secolo, (approfitto di questi, per estendere la critica a tutto il contesto: non sarebbe male se i curatori pensassero a fornire ogni opera di un talloncino illustrativo) e dal 1960, l’affresco di Antoniazzo Romano, staccato da un arco del cortile, raffigurante due imprese di Gentil Virginio Orsini: la cavalcata a capo dell’esercito aragonese verso Bracciano – svettante fiero sul suo cavallo bianco – e l’incontro con Piero de’ Medici davanti ad una favolosa struttura architettonica in prospettiva centrale tipica rinascimentale.

Antoniazzo Romano, Imprese di Gentil Virginio Orsini, fine XV secolo,
affresco staccato su tavola, Castello Odescalchi, Bracciano. 

Sala degli Orsini, Castello Odescalchi, Bracciano.
Proseguendo, la “Sala degli Orsini”, poiché qui vi erano appesi tra i più importanti ritratti della casata. Di questi ancor oggi rimangono i due importantissimi ritratti raffiguranti la celeberrima coppia di sposi Paolo Giordano Orsini e Isabella De’ Medici, divisi dallo stemma incorniciato della famiglia, nelle quali arme predominano nella parte inferiore bandature argentee e rosse, e in quella superiore una rosa canina rossa dai cinque petali su sfondo argenteo. A dividere le due arme, una banda dorata nel quale si sviluppa un’anguilla, che riconduce ai possedimenti della vicina Anguillara.

Questa ci introduce direttamente alla caratteristica “Sala di Isabella”.
Così chiamata perché per l’appunto, questa era la stanza in cui la nobildonna dormiva, nel meraviglioso letto a baldacchino dorato e azzurro in stile veneziano del XVI secolo, sotto una volta affrescata dalla scuola di Antoniazzo Romano sui cui fregi, putti sorreggono festoni e ghirlande.

Sala di Isabella, Castello Odescalchi, Bracciano 

Sala delle armi, Castello Odescalchi, Bracciano. 
Nel piano superiore si sviluppano in massima parte le collezioni di mobili e di armi degli Odescalchi, nelle sale che prendono il nome dalla collezione specifica o dalla riconduzione mitologica degli affreschi. Così è per la “Sala delle armi”, - ricavata soppalcando la Sala dei Cesari – in cui, sotto un fregio affrescato con le Storie di Uomini e Donne illustri (dove gli uomini sono ritratti entro clipei e le donne raffigurate a figura intera in pannelli rettangolari), prendono luogo le collezioni di armi e armature del XV – XVII sec., appartenenti agli Odescalchi. Tra questi spicca una meravigliosa armatura equestre da torneo di scuola milanese del XV sec. e due armature di fabbrica tedesca del XVI secolo.

E stessa considerazione va fatta per la “Sala di Ercole”, affrescata con storie mitologiche inneggianti all’eroe greco. Al suo interno continua la collezione delle armi Odescalchi, in particolare quella iniziata da Ladislao e ultimata da Innocenzo allo scoppio della I Guerra Mondiale: riguarda in massima parte cannoni, fucili e armi da sparo.

Sala di Ercole, Castello Odescalchi, Bracciano. 

Il ciclo di affreschi inneggiante alle Scienze e alle Arti, dà il nome alla “Sala delle Scienze”, nel cui fregio prendono luogo le riproduzioni dei “Tarocchi di Mantegna” all’interno di pannelli racchiusi da edicole gotiche, probabilmente dipinto dagli allievi di Antoniazzo Romano.
Pregiatissima, nell’arredo della stanza, è la Vesperbild di scuola tedesca, probabilmente asseribile al XIV-XV secolo.    

Sala delle Scienze, Castello Odescalchi, Bracciano. 
Anonimo, Vesperbild, XIV-XV secolo,
legno, Castello Odescalchi, Bracciano 

Sala del letto siciliano, Castello Odescalchi, Bracciano
L’arredamento particolare dà il nome a diverse sale, come la “Sala del bobolaccio”, che prende il nome dal baule di viaggio in cuoi con intarsi dorati, sito nella stanza, la “Sala del letto siciliano” che presenta un sontuoso e meraviglioso esempio di letto in ferro battuto di scuola siciliana del XVIII secolo; e ancora la “Sala Gotica”, che presenta un arredamento in stile neogotico, desiderato da Baldassarre Odescalchi, grande estimatore del nuovo stile sviluppatosi in Europa nel XIX secolo, tanto da volerne alcuni mobili per il suo castello.

Sala del Bobolaccio, Castello Odescalchi, Bracciano. 

Sala Gotica, Castello Odescalchi, Bracciano. 
A concludere l’affascinante tour, piccola menzione speciale merita la leggenda che aleggia attorno alla figura della Signora del Castello, Isabella de’ Medici, vista come una sorta di mantide religiosa dei suoi tempi.
Fonti storiche e dicerie, raccontano infatti che la sposa di Paolo Giordano, insoddisfatta e infelice del rapporto matrimoniale con suo marito, adescasse i suoi amanti per passare con loro focose nottate d’amore nella sua stanza – chiamata anche “Sala Rossa” - e, una volta che questi avevano adempiuto al compito, li trascinasse verso una porticina che dava ad un piccolo fosso trincerato di lame, dove questi trovavano la morte in modo cruento, dilaniati dal dolore.

Tanto che Paolo Giordano Orsini, esasperato dai suoi continui tradimenti, arrivò ad ucciderla nella villa di Cerreto Guidi a Firenze.
Una leggenda questa, però, che a distanza di secoli è stata smentita categoricamente da Elisabetta Mori, ricercatrice e studiosa di Isabella De’ Medici, che attraverso documentazioni e lettere d’amore è arrivata a poter affermare che la donna morì a soli 34 anni per un’infezione alle vie urinarie, intestinali e biliari e non per soffocamento.

Una donna che, stando alle lettere pubblicate, amava svisceratamente suo marito e in altrettanto modo fu amata, tanto che questo ne soffrì della sua morte in modo indescrivibile.
Una rivelazione che a distanza di quattro secoli ha riconsegnato alla figure di Isabella De’ Medici e Paolo Giordano l’amore che avevano effettivamente vissuto durante il loro matrimonio. 

Anonimo, Ritratto di Paolo Giordano Orsini,
1560, olio su tela, Castello Odescalchi, Bracciano
        Anonimo, Ritratto di Isabella De' Medici.
     1560, olio su tela, Castello Odescalchi, Bracciano.
      

lunedì 7 settembre 2015

Wilhelm Von Gloeden. La perfezione statuaria della gens di Taormina

Ritratto di Wilhelm Von Gloeden nel 1891
Sulla scia dei fotografi che ho trovato interessanti nella lettura del catalogo della Collezione Gruber del Ludwig Museum di Colonia (il Taschen Fotografia del XX secolo), ha destato particolarmente curiosità in me, un fotografo tedesco di nobili origini, vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, conosciuto soprattutto per la sua vocazione al nudo maschile e per la fortuna e allo stesso tempo disgrazia critica che hanno riguardato i suoi scatti nel corso del tempo.

Il fotografo in questione è Wilhelm Von Gloeden, il cui vissuto è strettamente correlato al suo percorso artistico, avendo questo abitato in Italia, per la precisione a Taormina, per quasi tutta la sua vita: un luogo fortunato per l’artista perché perfetto per le ambientazioni storiche delle sue fotografie nonché dal punto di vista antropologico per la tipologia dei modelli adoperati nei suoi scatti.

Nato a Wismar, nell’estremo nord della Germania, il 16 settembre 1856, figlio di nobili del luogo, il giovane Wilhelm crebbe sin da subito seguendo i precetti che confacevano ad un esponente della nobiltà tedesca, tanto da laurearsi in Storia dell’Arte presso l’Università di Rostock, per poi specializzarsi in pittura presso la scuola d’arte di Weimar nel 1877. Un nuovo interesse, quello per la storia dell’arte e per la pittura, che sicuramente si andava attecchendo già da qualche decennio addietro, alimentato dalle sempre più nuove scoperte in campo archeologico e dagli studi più dettagliati verso le personalità artistiche dei secoli addietro.

Quindi anche Von Gloeden si dedicò al mondo storico artistico dal punto di vista formativo, un mondo che non abbandonò mai anche quando, in seguito al suo trasferimento a Taormina per motivi di salute – probabilmente una forma atipica di tubercolosi, - a partire dal 1878 decise di dedicare le sue attenzioni alla fotografia, inizialmente vedendolo come un passatempo (non pochi nobili se ne interessarono in quel periodo, d’altronde le macchine fotografiche non erano accessibili a tutti dato il costo elevato del marchingegno), poi addirittura facendolo diventare la sua prima fonte redditizia.

W. Von Gloeden, San Giovanni degli Eremiti,
1890, fotografia, Palermo
W. Von Gloeden, Sopravvissuti al terremoto
di Messina, 1908, Messina

W. Von Gloeden, Fauno, 1895, fotografia, Taormina
D’altronde ne fu costretto, vedendosi annullato il vitalizio che puntualmente suo padre gli inviava poiché caduto in disgrazia. Eppure questa necessità impellente di trasformare il passatempo in professione effettiva fu la sua fortuna perché, a partire dal 1895, grazie alla macchina fotografica a soffietto regalatogli dal Granduca Federico Francesco III di Mecklenburg – Schwerin, amico di famiglia e grande ammiratore dei suoi scatti, poté scattare con ritmi più celeri i suoi soggetti e perfezionare la qualità delle sue immagini.

Fu quindi proprio nei primi anni ’90 del XIX secolo che Von Gloeden si vide riconosciuto dal mondo quale grande fotografo: i suoi scatti furono esposti tra il 1897 e il 1911 a Il Cairo, Berlino, Philadelphia, Budapest, Marsiglia, Nizza, Riga, Dresda e Roma, attirando la stima e l’ammirazione di studiosi, letterati e personalità di spicco dell’epoca, che solevano vedere nelle sue fotografie, il ritorno arcadico a quel mondo meraviglioso ed incontaminato vissuto nell’epoca d’oro delle civiltà classiche.

W. Von Gloeden, danzatori sulla terrazza di Taormina,
1895 ca, fotografia, Taormina
W. Von Gloeden, Bacco, 1890,
fotografia, Taormina

W. Von Gloeden, Ragazzo con giara,
 1895, fotografia, Taormina.
Un sotterfugio che il fotografo tedesco effettivamente adoperò per tutelare e meglio nascondere l’insito omoerotismo dei suoi scatti, che immortalavano il più delle volte ragazzetti in età puberale e adolescenti taorminesi in pose composte piuttosto che lascive, completamente nudi.
A meglio celare la natura di questi scatti infatti, ci pensavano monumenti, ruderi e oggetti che permettevano un rimando all’età classica, come colonne, murature in mattoni, anfore, calzari, toghe e vitigni.

Fu per questo che Von Gloeden riuscì per molto tempo a quietare le invettive bigotte e moraliste tipiche di un paesello siciliano agli inizi del secolo, alimentate soprattutto dal parroco Don Marziani: all’atto pratico i suoi scatti volevano essere un tributo alla gens di Turomenion – l’antica Taormina – di cui si diceva che i suoi discendenti sarebbero stati sempre fisicamente bellissimi e perfetti. Con la sua fotografia effettivamente lui dimostrava esattamente questo, scoprendo i suoi modelli maschili di ogni inutile orpello e lasciandoli nudi nella perfezione della loro muscolatura.


W. Von Gloeden, Le tre grazie, 1895,
 fotografia, Taormina
W. Von Gloeden, Ragazzo con giara, 
1898, fotografia, Taormina.

W. Von Gloeden, Ragazzo con palma,
1926, fotografia, Taormina
Un tributo a Omero e a Teocrito quindi, strettamente legati al territorio siracusano, che non può essere tale se i modelli non fossero totalmente spogliati della contemporaneità dei loro usi e costumi e grecizzati attraverso la nudità (gli sportivi gareggiavano nudi per esempio e la nudità in sé non era un grande tabù). Un tributo falsificato però dal fine ultimo di quegli scatti sviluppati in serie per adempiere alle voglie dei committenti provenienti da tutta Europa, desiderosi di possedere qualche fotografia degli statuari pastori e pescatori siciliani.

Un business che non solo arricchì in qualche modo il fotografo tedesco, ma dette nuovo lustro al paesello bucolico siciliano, meta “sessuale” di personalità di spicco della letteratura, dell’arte nonché dell’economia e dell’industria mondiale: tra i tanti curiosi che visitarono Taormina in quegli anni, configurano infatti Oscar Wilde, - che mai fece segreto della sua omosessualità – la grande attrice Eleonora Duse con il suo compagno Gabriele D’Annunzio, i magnati Friedrich Krupp e Richard Strauss, persino il re d’Inghilterra Edoardo VII, come si evince dai libri dei visitatori della casa di Von Gloeden.

W. Von Gloeden, Ragazzo col piffero,
 1890, fotografia, Taormina. 
Dal punto di vista tecnico le fotografie di Wilhelm Von Gloeden erano sicuramente qualitativamente di spessore, considerando che a differenza di altri fotografi di genere con cui spesso si confrontava – tra cui il cugino Wilhelm von Pluschow e il suo assistente Vincenzo Galdi, i suoi scatti godevano di una luce più delicata e di sfumature più impercettibili rispetto alla durezza degli altri due, nonché la compostezza dei suoi modelli rivangava notevolmente le pose plastiche della statuaria greca classica.

La fortuna professionale di Von Gloeden non fu così duratura mentre era in vita, anzi si concluse con la sua dipartita in Germania nel 1915, quando con l’entrata dell’Italia in guerra, la sua presenza sul territorio italiano non era gradita in quanto cittadino di uno stato rivale. La sua casa e il suo studio furono comunque tenuti vivi, nei tre anni di guerra, dal suo modello nonché amante Pancrazio Bucinì, finché nel 1919 il fotografo tedesco non fece ritorno.

Ma ovviamente la guerra aveva cambiato le cose. Molti dei suoi modelli morirono al fronte e lui non riuscì a trovare degni sostituti un po’ perché con la fine della guerra la società taorminese si era imbigottita più di quanto già non fosse, un po’ perché ormai le sue foto bucoliche e classiche non trovavano più una collocazione nel nuovo mondo industrializzato e futurista a cui tutti ambivano.

W. Von Gloeden, Ragazzo disteso, 1890, fotografia, Taormina

Von Gloeden quindi per poco più di un decennio si dette quasi totalmente alla fotografia di paesaggi e nature, aiutando ulteriormente lo sviluppo turistico di quei luoghi meravigliosi che sono le terre siciliane, fino al 16 febbraio 1931, quando all’età di 74 anni morì, lasciando il suo archivio fotografico considerevole (più di 7000 negativi) al suo preferito Pancrazio Bucinì (grazie al dono della sua unica ereditiera che non volle ereditare quegli scatti), che continuò a sviluppare in serie le fotografie del maestro al fine di rivenderle.


Pochi anni dopo, in pieno fascismo, tra il 1933 e il 1934 la casa – studio di Von Gloeden – Bucinì fu sottoposta a sequestro dalla polizia fascista e i tre quarti dell’archivio fotografico dell’artista tedesco fu distrutto, con l’accusa di essere materiale pornografico. Lo stesso Bucinì fu processato a Messina, ma infine assolto. Ad oggi quindi possiamo comunque godere degli scatti le cui lastre sono andate perdute, nonché gli originali rimasti da quel disastro inquisitorio, quando l’artisticità di un grande fotografo tedesco naturalizzato italiano, fu scavalcata dalla sua tendenza sessuale.

W. Von Gloeden, Mani con brocca,
 
1890, fotografia, Taormina
W. Von Gloeden, Tre ragazzi in giardino, 1890,
fotografia, Taormina

 

domenica 30 agosto 2015

La fotografia di Herlinde Koelbl: l'essere umano si racconta.

Fotografia del XX secolo, 
Collezione Gruber, 
Museum Ludwig, Colonia
Leggendo con morboso interesse il mio ultimo acquisto in ambito di storia della fotografia – il catalogo Fotografia del XX secolo, edito Taschen – che tratta della collezione Gruber, permanente al Ludwig Museum di Colonia, ho trovato decisamente interessante la biografia ed il percorso artistico di una fotografa tedesca tutt’oggi vivente, Herlinde Koelbl, nata a Lindau il 31 ottobre del 1939 e residente tutt’oggi a Monaco di Baviera. 

Particolarmente interessante perché, nel mondo selettivo della fotografia di qualità, le donne hanno sempre avuto un ruolo marginale rispetto agli uomini, per numero e notorietà, per quanto quelle poche dotate di vero talento, caparbietà, intuito e determinazione, ad oggi sono riconosciute quali capisaldi della storia della fotografia – una su tutte Margareth Bourke White, di cui ho trattato qui

Herlinde Koelbl
Da sempre interessata al mondo dello spettacolo dell’arte, il filo intersecabile che lega Herlinde Koelbl alla fotografia si crea nel 1975, quando appassionatasi a questo mondo inizia a studiarla da autodidatta: talento, preparazione e attitudine non mancano, tanto che da allora inizia a collaborare con testate giornalistiche di spessore, quali il Zeit Magazin, lo Stern o il New York Times

È presso queste che infatti, come fotoreporter, nel 1987 ha l’occasione di fotografare da vicino il mondo israelita, catturando nei suoi scatti la sacralità di un mondo molto legato alla religione (tant’è vero che non di rado riproduce in quelle sue composizioni, scene che ricordano aneddoti biblici) e la brutalità e la drammaticità della vita quotidiana nella Striscia di Gaza, nel pieno del movimento Intifada. 

La Koelbl dell’Intifada è una fotografa già conosciuta allora, perché la notorietà arriva sin da subito grazie all’intuizione del suo reportage fotografico Il soggiorno tedesco, le cui fotografie immortalano famiglie tedesche più o meno conosciute, nella stanza più comunicativa della casa. Il soggiorno infatti rivela le sfumature di chi l’ha arredato, quindi di conseguenza per alcuni tratti anche la sua anima. 

H. Koelbl, Hans Heinrich A. (agricoltore) e Maria A. (casalinga), 1980, fotografia, Bucher, Monaco.  

H. Koelbl, Alois W. (autista di gru)
e Katharina W. (casalinga), 1980,
fotografia, Bucher, Monaco. 
E proprio in questi scatti che si può notare quindi la diversità tra le famiglie tedesche dei più disparati ceti sociali, a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80: ognuno dei soggetti raffigurati nel proprio soggiorno non viene identificato con il cognome, ma solo col nome, perdendo quindi anche la sua importanza nella società. È così che ci ritroviamo personalità di spicco quali industriali, principesse e magnati, confusi con agricoltori o piccoli imprenditori: l’individuazione del loro gusto, del loro ceto è distinguibile solo guardando ai loro salotti, allestiti seguendo tradizioni culturali e venatorie tedesche o nella più piena modernità avanguardista. 

H. Koelbl, Dr. Franz F. (consigliere) e Gabriele F. (casalinga), 1980, fotografia, Bucher, Monaco.  

H. Koelbl, Tibor Radvanyi (studente) - Parigi,  2002,
 fotografia, Knesebeck Verlag, Monaco. 
La stessa idea sarà ripresa nel 2002, quando riproporrà Camere da letto. La tipologia d’indagine è pressappoco la stessa, ma le camere da letto prese in considerazione non sono solo tedesche – berlinesi nello specifico, -  ma anche londinesi, moscovite, newyorkesi, parigine e romane. 
In un giro del mondo virtuale, in piccole particolarità ogni camera da letto immortalata tradisce l’appartenenza geoculturale di chi la abita. 


H. Koelbl, Peter e Liz Ward (presidente  e casalinga) - Londra,
2002, fotografia, Knesebeck Verlag, Monaco.
Soggetti che non sono solo parte di arredamento ma che anzi, spiegano attraverso i loro occhi quello che vediamo attorno a loro: malinconica e romantica è la romana Concetta Duranti, la pensionata 85enne seduta sul suo lettone ordinato e rivestito di pizzo, mentre fissa fuori dalla finestra, seduta accanto alla sua bambola di porcellana; rock e cosmopolita è la berlinese Andrea Kummer, distesa seminuda e tatuata sul suo letto rosso, in una stanza che sposa elementi kitsch, musicali e religiosi; dolcissima e tradizionale è la pensionata moscovita Kira Swiridowa, composta sul suo letto e circondata da un arredamento minimal in cui si staglia un televisore con la cassa in legno, stile anni ’80, e così via. 

H. Koelbl, Andrea Kummer (studentessa)
- Berlino, 2002, fotografia,
Knesebeck Verlag, Monaco. 
H. Koelbl, Concetta Duranti (pensionata) - Roma, 2002,
fotografia, Knesebeck Verlag, Monaco. 







H. Koelbl, Kira Swiridowa (pensionata) - Mosca, 2002, fotografia, Knesebeck Verlag, Monaco.

H. Koelbl, Gente Elegante, 1986, fotografia,
Edition Stemmle, Schaffhausen. 
A I soggiorni tedeschi, segue quindi nell’86 la pubblicazione del suo reportage Gente Elegante, in cui in modo impietoso Herlinde Koelbl con il suo obbiettivo va a raccontare cosa si nasconde effettivamente dietro la facciata spesso ipocrita dell’elite della società. In un mondo fatto di galà, serate di beneficienza, vernissage e cene super lussuose, le fotografie dell’artista sono uno smacco: il retrogusto kitsch dell’abbigliamento sontuoso e scollato delle commensali, le unghie brillantinate e in pendant con anelli e bracciali che ricoprono le mani di donne intente a fumare, uomini di alto livello che palpano il seno alle loro accompagnatrici in preda a qualche bicchiere di troppo, claque che sostiene la spogliarellista intenta a togliersi le vesti.. tutto ricorda quella società alla deriva, raccontata anche dagli espressionisti tedeschi qualche decennio addietro. 

H. Koelbl, Gente Elegante, 1986,
fotografia, 
Edition Stemmle, Schaffhausen. 
H. Koelbl, Gente Elegante, 1986,
fotografia, 
Edition Stemmle, Schaffhausen. 

H. Koelble, Uomini, 1984,
fotografia, List Verlag, Monaco
Ancora di forte impatto è il dittico Uomini e Donne forti, due reportage eseguiti con un distacco di poco più di un decennio il primo dal secondo – 1984 e 1996 – che indagano circa la complessità psicofisica dell’essere umano in entrambi i generi. 
Gli scatti di Uomini, sono fotografie che non hanno l’intenzione di apparire sterilmente cariche di erotismo e machismo, ma documenti che rivelano da un lato la plasticità e la tensione di linee molto ben definite, che ben si sposano con i chiaroscuri provocati dall’angolazione dello scatto e dalla direzione della luce, dall’altro la dolcezza di attimi di intimità e smascheramento, la consapevolezza dell’età che avanza, ma anche la virilità e il desiderio dell’amore omosessuale.


H. Koelble, Uomini, 1984, 
fotografia, List Verlag, Monaco
H. Koelble, Uomini, 1984, 
fotografia, List Verlag, Monaco

H. Koelble, Uomini, 1984, 
fotografia, List Verlag, Monaco
H. Koelble, Uomini, 1984, 
fotografia, List Verlag, Monaco

H. Koelbl, Donne forti, 1996,
fotografia, Knesebeck Verlag
Con Donne forti fa lo stesso, ma il lavoro si rivela ancor più delicato in questo caso. Gli scatti che compongono il reportage sono emozionalmente forti, perché forti sono anche i pregiudizi verso quelle donne dal fisico muscoloso, prorompente o segnato dall’età che avanza. Le donne delle fotografie di Koelbl sono davvero forti, lo dimostrano sorridendo sinceramente e mostrando le loro nudità burrose e morbide o estremamente rugose, che smorzano la compattezza degli scatti creando un dolce dinamismo sinuoso e veritiero. 







H. Koelbl, Donne forti, 1996,
fotografia, Knesebeck Verlag
H. Koelbl, Donne forti, 1996,
fotografia, Knesebeck Verlag

H. Koelbl, Donne forti, 1996,
fotografia, Knesebeck Verlag
H. Koelbl, Donne forti, 1996,
fotografia, Knesebeck Verlag

D’altronde il percorso artistico della Koelbl segue una linea volta alla denuncia, sia nel senso letterale della parola che nella versione più cruda. È un percorso volto a raccontare e a spiegare quello che spesso non sia ha voglia di guardare, così come è stato per Gente Elegante e Donne forti. Lo fa sempre nel 1996 anche con il suo reportage Sacrificio, in cui senza prendere parti e difese, semplicemente documenta il macello degli ovini nella crudeltà più veritiera. 


H. Koelbl, Sacrificio, 1996,
fotografia, Edizione Braus, Heidelberg
H. Koelbl, Sacrificio, 1996, 
fotografia, Edizione Braus, Heidelberg

Non accentua la Koelbl ma documenta, resta lì a guardare e a dimostrare: le fotografie a colori piuttosto che in bianco e nero rendono il pathos di quanto accade e l’effimera arrendevolezza degli anelli, appesi scuoiati agli alberi o ormai deboli e in fin di vita sgozzati e inondati del loro sangue: sacrificio di esseri viventi per l’alimentazione dell’uomo e chiaro rimando alla religiosità insita dell’atto. 


H. Koelbl, Sacrificio, 1996, 
fotografia, Edizione Braus, Heidelberg
H. Koelbl, Sacrificio, 1996, 
fotografia, Edizione Braus, Heidelberg


H. Koelbl, Obiettivi - Brasile, 2014, fotografia, Prestel
Stessa politica attuata per il suo ultimo lavoro (2014), Obiettivi, reportage che attraverso foto scattate in più di trenta paesi nei sei anni addietro alla pubblicazione, mostra come i soldati vengano addestrati ad uccidere. Dietro ogni scatto c’è l’intenzionalità di raccontare aspetti psicologici legati a chi insegna, a chi impara e alla società di cui fanno parte: un caso per tutti l’esempio americano, per cui il nemico è il sagomato di un terrorista arabo intento a premere il detonatore di una bomba. 



H. Koelbl, Obiettivi -USA, 2014, fotografia, Prestel

Ma la sua opera più importante rimane sicuramente Tracce di potere del 1999, reportage che riprende in più riprese i ritratti dei più importanti politici della Germania degli ultimi decenni. Joschka Fischer, Gerhard Schröder, Angela Merkel, Arnold Vaatz, Frank Schirrmacher, Renate Schmidt, Monika Hohlmeier e Irmgard Schwaetzer sono tra i protagonisti di questo lavoro, esemplare se si ragionasse sul fatto che alcuni di loro sono stati fondamentali per il traino della Germania in Europa, come i cancellieri Gerhard Schröder o Angela Merkel, che tutt’oggi è il perno principale su cui fa leva l’Unione Europea. 


H. Koelble, Angela Merkel, 1991, fotografia, Monaco. 

H. Koelble, Angela Merkel, 2006, fotografia, Monaco.